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Il romanzo
17 Aprile 2025 - 11:09
C’è stato un tempo, che molti di noi guardavano dal vetro opaco di un’antica finestra, in cui le storie non venivano consumate, ma vissute con la delicatezza di un soffione e la profondità del mare in tempesta, qui ogni parola pareva radicarsi nel silenzio e nella devozione e ogni incontro portava con sé una rivelazione.
Il libro “Liane e Marcello – un infinito amore” di Tommaso Maria Ferri non nasce come atto creativo di finzione ma è vero, autentico, in un momento storico ben definito, lontano da noi, eppure presente. Ci troviamo davanti ad un atto di scoperta, una sorgente che, da una fenditura nella pietra antica, sgorga di nuovo e vede la luce dopo aver spinto la sua forza nel sottosuolo della dimenticanza. Così viene in superficie per essere “vista” dagli occhi capaci ed attenti del cuore.
Premetto, non per pudore, ma per fedeltà alla natura stessa del romanzo, che la trama non si svela. La meraviglia della scoperta è così bella e fragile che va, assolutamente custodita. Andare ad analizzare o raccontare come e per quali vie si dipana la storia, finanche giungere al finale, significherebbe spezzare il filo segreto che lega la pagina al lettore, interrompere il miracolo dell’inchiostro che, diventato verbo, si fa strada nella mente. Significherebbe cancellare la magia che unisce l’empatia a questo o quel personaggio, finanche indirizzare il percorso emozionale di chi apre il testo e dovrebbe trovare (io almeno lo pretendo) un terreno inesplorato, vergine.
Veniamo così a raccontare alcune suggestioni personali che nascono dalla lettura di questo romanzo in cui la protagonista principale è la fede nell’amore. Si ritempra la dolcezza del pensiero, si concepisce l’assioma dell’essere noi rispetto alla solitudine dell’io e, parafrasando Kierkegaard, diremo: "Il vero viaggiatore scopre che la meta era il viaggio stesso”, in questo libro: ogni passo, ogni parola, è già una destinazione.
Il perdono filiale ha una natura profondamente diversa da quello che avviene tra due fidanzati. Quando un figlio perdona un genitore — o viceversa — l’atto è radicato in un amore che esiste prima di ogni errore, di ogni delusione: ci troviamo davanti ad un amore originario, primordiale, che accompagna e precede la vita stessa. Non nasce da una scelta libera come in una relazione sentimentale, ma da un legame di sangue, di carne, di destino. Per questo è, in un certo senso, più doloroso e più radicale: richiede di guarire ferite che toccano l’identità stessa della persona. Perdonare un genitore significa, a volte, perdonare anche la propria storia, accettare che l’amore ricevuto fosse imperfetto, che chi avrebbe dovuto proteggerci era umano, fragile, manchevole.
Diversamente, tra fidanzati il perdono si inserisce in una dinamica di scelta reciproca. Due fidanzati si sono voluti, hanno deciso di camminare insieme, e il perdono serve a ricucire uno strappo che mette in discussione proprio quella scelta. È una possibilità, non un obbligo naturale: si può anche decidere di non perdonare, di interrompere il cammino comune. Nel perdono filiale, invece, il legame non si scioglie: si può prenderne le distanze, si può costruire una nuova relazione adulta, ma la radice rimane. Il perdono qui non è solo guarigione dell’altro, è soprattutto guarigione di sé. Non si perdona solo per l'altro, ma per liberarsi dal peso della rabbia, del risentimento, della tristezza che, altrimenti, ci inchioderebbe a un passato ferito.
In questo senso è atto d’amore alto: è riconoscere nell’altro la sua fragilità, come specchio della nostra, ed è scegliere di amarlo nonostante tutto, come in fondo avremmo voluto essere amati.
Tommaso Maria Ferri riesce a scrivere, con estrema eleganza, il romanzo calandosi nella lingua e stile ottocentesco ma con una musicalità e innesti di modernità che da un lato, offrono al lettore il respiro solenne e cadenzato dell’Ottocento, dall’altro, l’immediatezza vibrante della modernità. Ogni parola è un tocco, lieve, su un’arpa antica, accordata per suonare ancora tra mani nuove: il linguaggio scivola veloce e ogni immagine risuona in un’eco di comprensione che è prima scenografica e poi esistenziale.
L’autore riesce, altresì, a mettersi nei panni di Marcello e per questo il lettore lo vede sin dalle prime battute, non terzo ma protagonista assoluto con tratti di autobiografismo, seppur lieve.
Ci sono libri che si leggono, altri che ti leggono. Liane e Marcello appartengono a questa seconda categoria, ti legge e ti attraversa. Come note della Traviata, continua a vibrare anche dopo l’ultima pagina, ricordando a ciascuno di noi che:
"Chi ama crede. Chi crede vede… e, nonostante il tempo, l’amore trova sempre la sua via per tornare alla luce.”
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