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Clan Buonerba al capolinea, la Cassazione “gela” i boss

Clan Buonerba al capolinea, la Cassazione “gela” i boss

NAPOLI. Un nuovo kappaò giudiziario si abbatte sul “sistema” di Forcella e i ras del clan Buonerba imputati per camorra e droga incassano la stangata anche nell’ultimo grado di giudizio. La Sesta sezione della Corte di Cassazione, dando ampio accoglimento alla linea della Procura, ha infatti confermato quasi tutte le condanne inflitte in appello agli esponenti del gruppo di “mala” di via Oronzio Costa. Unica pena rimodulata al ribasso in ragione di un parziale annullamento è stata quella rimediata da Maria Buonerba, che visto la propria condanna ridursi da 7 anni e 9 mesi a 6 anni di reclusione. Già nel marzo dello scorso anno i giudici avevano deciso di non concedere alcuno sconto ai ras del “vicolo della morte”. La famiglia Buonerba di via Oronzio Costa, la stessa strada in cui è stato trucidato nell’estate 2015 il babyboss Emanuele Sibillo, aveva infatti rimediato in appello la conferma in blocco di tutte le precedenti condanne. Con l’accusa di associazione per delinquere di stampo mafioso, era così tornato alla sbarra parte del gotha del clan dei “capelloni”. Nomi pesanti nella geografia criminale del centro storico di Napoli. Ras e affiliati di primo piano, che fino al 2016 sono stati impegnati in una lotta senza quartiere contro l’ex cartello Sibillo-Giuliano-Brunetti-Amirante, oggi polverizzato dalle fratture interne, dagli omicidi subiti e da una vera e propria raffica di arresti. Certo, neppure i Buonerba sono usciti indenni da quella fase. Basti pensare che nell’ottobre 2016 il gruppo di via Oronzio Costa aveva rimediato in primo grado, per l’omicidio di Salvatore D’Alpino, delitto da cui è poi scaturito il processo appena conclusosi in Cassazione, qualcosa come quattro ergastoli. In sette rispondevano invece della sola accusa di associazione di stampo mafioso: Salvatore Sequino, appartenente all’omonimo gruppo di camorra del rione Sanità ma alleato con i “capelloni”, aveva così rimediato 15 anni e 9 mesi di reclusione; Vincenzo Rubino, 15 anni e 9 mesi; Andrea Manna, 10 anni; Giuseppe Buonerba, 15 anni; Emilia Sibillo, 8 anni; Maria Buonerba, 7 anni e 9 mesi; Raffaele Trongone, 4 anni e 5 mesi. Da una costola di quel verdetto è stato in seguito istruito un nuovo processo stralcio per 416-bis. Ma il copione non è cambiato neppure di una virgola. La Seconda sezione della Corte d’appello di Napoli, accogliendo la linea della Procura, aveva deciso di confermare per i sette imputati le condanne di primo grado. Il cerchio giudiziario si è stretto intornoal gruppo Buonerba già pochi giorni dopo il delitto D’Alpino. Dopo l’agguato, infatti, l’inchiesta coordinata dalla Dda aveva subito una forte accelerazione. Forcella e via Oronzio Costa - il “vicolo della morte” - erano finite h24 sotto la lente di ingrandimento degli investigatori. E da una delle centinaia di conversazioni intercettate era saltato fuori il retroscena che ha segnato la definitiva svolta investigativa. Assunta Buonerba, sorella del boss Gennaro, all’interno della propria abitazione conversava con Emilia Sibillo, moglie del ras, già all’epoca detenuto, Giuseppe Buonerba: «Totore “’o brillante” si deve sparare, si deve levare di mezzo». Molto più che un indizio: quello, secondo la Dda, sarebbe stata una vera e propria sentenza di morte all’indirizzo di D’Alpino, poi ucciso il 30 luglio 2015.

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