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Ponte Morandi, chiesti 4 anni per i manager in odore di clan

Ponte Morandi, chiesti 4 anni per i manager in odore di clan

Ferdinando Varlese e Consiglia Marigliano rischiano in primo grado. La loro azienda era già stata estromessa dai lavori per la demolizione

NAPOLI. Prima la revoca del subappalto per la ricostruzione del Ponte Morandi a Genova, poi l’inchiesta della procura di Genova con tanto di arresto e ieri la pesante richiesta di condanna avanzata dal pubblico ministero di Napoli Henry John Woodocock. Ieri mattina, dinanzi al giudice per le indagini preliminari Maria Laura Ciollaro della settima sezione penale del Tribunale di Napoli, il magistrato inquirente ha tirato le somme del processo ed ha chiesto quattro anni di carcere sia per Ferdinando Varlese, zio dei boss D’Amico di San Giovanni a Teduccio, che per la consuocera Consiglia Marigliano. I due sono accusati di intestazione fittizia di beni, relativamente alla società Tecnodem che si era aggiudicata il subappalto nell’ambito della ricostruzione del Ponte Morandi  crollato il 14 agosto del 2018. Una pena pesantissima quella invocata dal pm se si considera che il processo si sta svolgendo con la modalità del rito abbreviato, formula che prevede lo sconto di un terzo della pena. Nello specifico la procura contesta ai due imputati delle anomalie nella gestione della Tecnodem: sulla carta l’amministratore unico è Consiglia Marigliano, ma la procura ritiene che il vero responsabile dell’azienda sia Varlese, il quale non figura nella compagine societaria ma solo come dipendente. Consiglia Marigliano è invece considerata una prestanome, un «cosciente schermo» per dirla con le parole degli inquirenti. Con questo assetto, la Tecnodem si è aggiudicata il subappalto da 100mila euro. Un lavoro, però, che non potrà più svolgere. Mesi fa, infatti, la ditta ha ricevuto l’interdittiva antimafia emessa sulla scorta della parentela di Varlese coi D’Amico e dei suoi vecchi precedenti. Varlese ha alle spalle un vecchissimo problema con la giustizia risalente a circa 30 anni fa: nel 1989 Varlese è stato condannato dalla Corte d’Appello di Napoli per associazione a delinquere nell’ambito di un processo che che vedeva tra gli imputati anche soggetti affiliati al clan Misso-Mazzarella-Sarno guidato da Michele Zaza e Ciro Mazzarella. Il figlio di Varlese, Luigi, è stato condannato in primo grado a 13 anni e 6 mesi nell’ambito di un processo contro i D’Amico. Questo passato ingombrante aveva spinto la procura di Genova (che ha poi passato gli atti a Napoli per competenza territoriale, dal momento che la Tecnodem è stata costituita a Napoli dove ha sede legale) a contestare anche l’aggravante della matrice camorristica, che aveva pure retto in sede di Riesame. Ma quando la procura ha fatto richiesta di giudizio immediato, il gip ha respinto l’istanza ritenendo che per l’aggravante della matrice camorristica non vi fossero indizi solidi. Quindi la parziale marcia indietro della procura che ha deciso di procedere esclusivamente per il reato di intestazione fittizia di beni, reato per il quale i due imputati sono attualmente detenuti in regime di arresti domiciliari. Si torna in aula il prossimo mese per la discussione dell’avvocato Raffaele Chiummariello, che assiste i due imputati, e per la sentenza. Il magistrato inquirente ha tirato le somme del processo ed ha chiesto quattro anni di carcere sia per Ferdinando Varlese, zio dei boss D’Amico di San Giovanni a Teduccio, che per la consuocera Consiglia Marigliano. Per entrambi è iniziato il conto alla rovescia in vista della sentenza di primo grado.

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