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05 Marzo 2020 - 07:30
Il noto imprenditore ottiene gli arresti domiciliari a Napoli
NAPOLI. Assolto e adesso anche scarcerato. Un nuovo colpo di scena si abbatte sulle sorti giudiziarie dell’imprenditore Bruno Potenza, a lungo accostato agli affari criminali del clan Lo Russo di Miano ma in seguito scagionato da quest’accusa, il quale da ieri è tornato nella propria abitazione napoletana dove potrà scontare l’ultimo residuo di pena a poco più di anni al regime degli arresti domiciliari. A concedere il beneficio è stato il Tribunale di Sorveglianza di Milano, il quale ha disposto per Potenza l’immediata scarcerazione. Un colpo di scena che arriva a pochissime settimane di distanza dall’ultima assoluzione incassata dal noto imprenditore. Le intercettazioni ambientali non erano utilizzabili, o almeno non lo erano nei termini previsti dalla Procura in sede di decreto, e l’inchiesta sul sistema di riciclaggio del clan Lo Russo il 30 gennaio scorso ha perspo un altro tassello. I giudici della Terza sezione della Corte d’appello di Napoli avevano infatti assolto per non aver commesso il fatto l’imprenditore Bruno Potenza e il coimputato Maurizio Di Napoli. Quella che vede protagonista Bruno Potenza, difeso dagli avvocati Sergio Cola, Giuseppe De Gregorio e Andrea Imperato è una vicenda che, verdetto dopo verdetto, va diventando sempre più singolare. A tratti labirintica. Il suo nome fece capolino nelle pagine di cronaca giudiziaria nel novembre del 2011, quando venne arrestato nell’ambito dell’inchiesta “Megaride” che fece luce sui nuovi affari del clan dei “Capitoni” di Miano. Per quell’imputazione Potenza ha visto nel tempo sgretolarsi l’aggravante dell’agevolazione camorristica, rivelatasi del tutto infondate, ma rimase in piede l’imputazione di riciclaggio per la quale nel 2014 è stato condannato in via definitiva a 5 anni di reclusione. Dopo un lungo periodo di detenzione nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, Potenza si trova attualmente ristretto agli arresti domiciliari. Ma le sue grane giudiziarie non sono finite qui. Nel 2015, all’indomani del pentimento del boss Antonio Lo Russo, scatta infatti il secondo atto dell’indagine. Vengono così firmati i decreti autorizzativi della nuova attività di intercettazione, motivata dalla sua presunta vicinanza al clan Lo Russo. Gli investigatori ascoltano per mesi i colloqui in carcere tra l’imprenditore e la moglie, ma i riscontri tardano ad arrivare. Tant’è che l’indagine sul filone camorristico viene archiviata. Gli inquirenti si imbattono però sull’atto di vendita del ristorante “Villa delle Ninfe”, che Bruno Potenza, almeno secondo i pm, avrebbe ceduto a Maurizio Di Napoli soltanto fittiziamente al fine di sottrarre il bene a eventuali sequestri preventivi da parte della magistratura. Parte dunque il processo di primo e nonostante la difesa di Potenza si opponga strenuamente all’utilizzabilità di quelle intercettazioni, disposte per un’altra ipotesi di reato, l’imprenditore incassa una condanna a 3 anni e 4 mesi di reclusione. Inutile anche il rilievo sollevato, secondo il quale per il reato contestato, fittizia intestazione di beni, l’ordinamento non preveda l’arresto. Nel frattempo Potenza ottiene il beneficio degli arresti domiciliari e parte il ricorso in appello. E proprio nel processo di secondo grado la situazione finisce per ribaltarsi a favore dei due imputati. Sulla scorta della sentenza “Cavallo” delle sezioni riunite della Corte di Cassazione, le difese dimostrano che il decreto con cui le intercettazioni erano state autorizzate non utilizzabile in quel tipo di procedimento e con quella determinata imputazione. Il pubblico ministero, dal canto suo, tira dritto chiedendo la conferma delle condanne di primo grado. La Terza sezione della Corte d’appello stavolta accoglie però la linea dei difensori e assolve Potenza e Di Napoli.
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