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Il farmaco della speranza che riduce i rischi

Il farmaco della speranza che riduce i rischi

Il cardiologo Giampaolo Palma: il Clexane può curare la malattia nelle prime fasi

NAPOLI. Dalle autopsie delle vittime del Covid-19 sta emergendo un dato: i tessuti sono devastati dai coauguli. Insomma, ad uccidere gli ammalati è la trombosi prima ancora della polmonite. La soluzione che stanno trovando gli specialisti è quella di utilizzare eparine, come il Clexane, un farmaco a basso costo che ha due effetti: quello di impedire la coagulazione e quello di ridurre l’infiammazione. L’Aifa (Agenzia italiana del farmaco) in brevissimo tempo ne ha approvato l’utilizzo, sottolineando, però, nella scheda tecnica che «poiché l’uso terapeutico delle Ebpm (eparine a basso contenuto molecolare) sta entrando nella pratica clinica sulla base di evidenze incomplete e con importanti incertezze anche in merito alla sicurezza, si sottolinea l’urgente necessità di studi randomizzati che ne valutino efficacia clinica e sicurezza”. In Campania a far circolare la notizia tra i non addetti ai lavori è stato il post su Facebook di Giampaolo Palma (nella foto), cardiologo già presso l’Ospedale Maggiore di Parma, ora a Nocera Inferiore direttore sanitario del Centro malattie cardiovascolari e del Centro trombosicoagulazione-scompenso, accreditato con il Servizio sanitario nazionale. «Bisogna intervenire in fasi iniziali e non più nella fase di ventilazione assistita», dice Palma.

Lei è un sostenitore dell’utilizzo di questo farmaco, perché? «Analizzavamo in videoconferenza i prelievi bioptici e esami istologici dei primi frammenti di polmone dei pazienti Covid deceduti e abbiamo notato che erano impregnati di coaguli. Aggrediti da una vera e propria tempesta coagulativa. Ora cominciamo a chiamare questi coaguli microclots. Inizialmente sembrava in Coagulazione intravascolare disseminata “atipica”, con interessamento di parenchima polmonare e vene degli arti inferiori, adesso appare sempre più come una “Cac”, malattia coagulativa da Covid-19.».

Ha parlato di videoconferenza, con chi è in contatto?

«Con il professor Pierluigi Viale, direttore di Malattie infettive al Policlinico S.Orsola-Malpighi di Bologna. Ho avuto successivamente modo di partecipare a videoconferenza con colleghi cardiologi, intensivologi, pneumologi, anatomopatologi di diversi ospedali della Lombardia in cui venivano analizzati i prelievi bioptici di tessuto polmonare».

Che succede al paziente di Covid-19 che finisce in terapia intensiva?

«Si pensa che i pazienti vadano in terapia intensiva e ventilazione assistita (Cpap) per Tromboembolia venosa generalizzata, soprattutto Tromboembolia polmonare (Tep). Se così fosse, potremmo fermare la malattia alle prime fasi e forse non serviranno più le Rianimazioni per intubare i pazienti. Ci potremo fermare alle Fasi 1 e 2 della malattia, la fase di replicazione virale e iniziale fase polmonare. Un grande aiuto alla terapia in fase media della malattia prevede di sciogliere il trombo e quindi bisogna prevenire queste tromboembolie. Se ventili un polmone dove il sangue non arriva, non serve. Infatti muoiono 8 pazienti su 10».

Quindi la malattia colpisce i vasi sanguigni? «I vasi, l’apparato cardiovascolare, e solo dopo arriva ai polmoni. Sono le microtrombosi venose, non la polmonite a determinare la fatalità. La polmonite interstiziale che si vedeva alle prime Tac era conseguenza della tempesta coagulativa di microclots con conseguente tempesta di citochine che provoca distress respiratorio. Infatti, più elevato era lo stato infiammatorio iniziale del paziente (Pt e D-dimero ) e più erano alti gli indicatori di coagulazione, più la mortalità aumentava. Del resto, c’è anche uno studio condotto da Agnese YY Lee e altri e pubblicato sulla rivista della Società americana di ematologia che conferma questi aspetti».

Quando bisogna utilizzare il farmaco?

«Bisogna utilizzare il farmaco insieme agli altri farmaci raccomandati dalla Società italiana di malattie infettive nelle prime fasi della malattia. Bisogna evitare che il paziente arrivi in ospedale. Del resto, sono convinto che tra il lasciare a letto il paziente per 10 giorni con febbre, tosse e astenia estrema senza fare niente e cercare di fare terapia con opportuni accorgimenti, è più etico intervenire nelle fasi iniziali della malattia».

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