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14 Ottobre 2020 - 13:15
"Un lockdown in Italia durante le feste di Natale potrebbe essere necessario per bloccare la diffusione del coronavirus e aumentare l'efficienza del tracciamento dei contagi sul territorio". Lo ha affermato Andrea Crisanti, direttore del dipartimento di Medicina molecolare dell'università di Padova e del laboratorio di Microbiologia e virologia dell'azienda ospedale-università di Padova, ospite a 'Studio24' su Rainews24.
"Sono preoccupato - sottolinea - per la limitata capacità che abbiamo di bloccare la trasmissione del coronavirus sul territorio. Riusciamo a mettere in quarantena solo il 5% dei positivi".
"Le terapie intensive e i decessi da Covid-19 aumentano sempre con alcune settimane di ritardo rispetto all'aumento dei contagi. Visti i dati, ci aspettiamo quindi un incremento del loro numero nei prossimi giorni".
Crisanti non si risparmia una 'frecciatina': "Nel Comitato tecnico scientifico manca il supporto tecnico e scientifico degli esperti del mondo accademico. Le persone che ne fanno parte hanno visto la pandemia solo in televisione e non sul campo".
Per questo Crisanti ha proposto di sfruttare il periodo natalizio e la chiusura delle scuole per sospendere temporaneamente alcune attività.
Ha inoltre spiegato che a favorire il contagio sono soprattutto i mezzi pubblici, motivo per cui secondo lui, piuttosto che diminuire la capienza, si potrebbe obbligare i passeggeri a indossare mascherine chirurgiche e vietare l’ingresso a chi ha mascherine fai da te. I dispositivi di stoffa sarebbero infatti efficaci solo se lavati tutti i giorni. Il vero problema secondo lui è l’impostazione per cui le misure vengono prese per inseguire il virus e non per anticiparlo.
Pur riconoscendo che non c’è un manuale per affrontare una pandemia che nessuno si aspettava, “ma dalla prima ondata avremmo dovuto imparare molte cose“.
"I casi di reinfezioni, circa 20 quelli ben documentateci, dicono che non possiamo affidarci all’immunità acquisita tramite l’infezione naturale per ottenere l’immunità di gregge. Questa strategia non solo causerebbe la morte di molte persone, ma neppure funzionerebbe. L’ottenimento dell’immunità di gregge richiede vaccini sicuri ed efficaci e una vaccinazione diffusa della popolazione". Lo riporta Roberto Burioni, virologo del San Raffaele di Milano, in un articolo pubblicato su 'MedicalFacts', il sito di informazione e divulgazione scientifica da lui fondato citando un editoriale pubblicato su 'Lancet', "con il quale sono perfettamente d'accordo", chiarisce il virologo.
Burioni, nella sua riflessione, parte da una domanda: chi è guarito può essere di nuovo infettato da Sars-CoV-2? Per rispondere ricorda che questo è il quesito che "tutti si fanno da mesi nella speranza che l’immunità di gregge potesse essere la soluzione alla pandemia", sottolinea lo scienziato "ma i dati, però, sembrano dirci altro". È di ieri la descrizione del primo caso certo di reinfezione negli Stati Uniti. "Un venticinquenne del Nevada, senza nessun disturbo del sistema immune, si è reinfettato 28 giorni dopo la prima infezione. Possiamo essere ragionevolmente certi che si tratta di una nuova infezione e non di una mancata guarigione, perché le caratteristiche genetiche del primo e del secondo virus sono diverse", osserva Burioni.
"L’elemento clinico degno di nota è che la seconda infezione è stata molto più grave della prima, portando il paziente a un ricovero e alla necessità di ossigenoterapia. Sono a questo punto circa 20 le reinfezioni ben documentate - ricorda lo scienziato - con una paziente che è deceduta inseguito al secondo contagio (ma si tratta di una donna molto anziana e con gravissimi problemi di salute già presenti prima dell’infezione virale)".
"Prima di tutto dobbiamo considerare che le reinfezioni asintomatiche potrebbero essere più frequenti (le vedremmo solo durante screening casuali), e quindi la protezione clinica fornita dalla prima infezione potrebbe essere molto più solida di quello che ci sembra. Su questo dobbiamo continuare a fare ricerca - prosegue Burioni - I test per la rilevazione degli anticorpi non sono standardizzati, e anche in questo caso non possiamo sapere se i pazienti reinfettati avevano o meno gli anticorpi che in generale sono correlati alla protezione dalle infezioni virali (e che sono indotti dai vaccini in via di sperimentazione), ovvero quelli capaci di neutralizzare il virus. Pure su questo argomento ne sapremo di più con il tempo".
Ma i pazienti reinfettati sono contagiosi? "Capirlo è molto difficile (bisogna quantificare il virus infettivo e per farlo è indispensabile un laboratorio in cui si possa lavorare in condizioni di altissima sicurezza), ma almeno in qualche caso è ragionevole pensare che i reinfettati possano essere stati infettivi", conclude il virologo.
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