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24 Febbraio 2021 - 10:09
In questa fase della pandemia "i bambini e i ragazzi sono più coinvolti perché le varianti sono più diffusive.
Per quanto riguarda la gravità della malattia nei bambini, al momento non c'è documentazione, nel senso che i ragazzi continuano ad avere una capacità di resistere alla malattia grave rispetto alle persone in età avanzata".
Lo ha spiegato Alberto Villani, presidente della Società italiana di pediatria (Sip) e componente del Cts, ospite ad 'Agorà' su Rai Tre.
I contagi tra i più piccoli sono stati molto pochi nella prima fase pandemica, ha ricordato Villani, "a maggio abbiamo avuto meno di 5mila casi tra bambini e ragazzi.
Adesso ne abbiamo decina di migliaia. E' facile quindi che il virus si diffonda più facilmente.
E se una variante ha la capacità di diffondersi del 30-40% in più ciò significa che se prima un bambino ne infettava altri 2 ora ne infetta tre".
La previsione di Pregliasco: «A metà marzo tutti i casi legati a variante inglese»
"I modelli ci dicono che per metà marzo il rischio è che tutti i casi" di coronavirus "siano collegati alla variante inglese. Speriamo che le azioni più mirate di zone rosse possano mitigare la diffusione".
Così il virologo Fabrizio Pregliasco, direttore sanitario Irccs Galeazzi di Milano, intervenuto ai microfoni della trasmissione 'L’Italia s’è desta' su Radio Cusano Campus, che aggiunge: "Il meccanismo del modello a colori funziona per mitigare, anche se non riesce ad arrivare al controllo della malattia.
E’ ovvio che un lockdown pesante sarebbe difficile da adottare, considerando l’insofferenza sociale e i danni economiche che provocherebbe".
Le varianti preoccupano
Le varianti del virus Sars-CoV-2 - sostiene Pregliasco - "sicuramente preoccupano" ma "non devono essere considerate un dramma. Non bisogna dare messaggi che sconfortino in modo eccessivo la comunità", ammonisce.
"Le varianti le cerchiamo e cercandole ne abbiamo maggiore contezza. Le tre varianti principali sono quelle che hanno elementi di contagiosità maggiore e ancora non è chiaro il motivo: sembra collegato non ad una carica virale maggiore - spiega il virologo -bensì ad una lunghezza maggiore del periodo di contagiosità, che andrebbe oltre i 10 giorni".
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