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Da “prelevatore” ad accusatore, la vita di Misso sarà una fiction

Da “prelevatore” ad accusatore, la vita di Misso sarà una fiction

Nuovi nomi e un capitolo sul “professore” Raffaele Cutolo

NAPOLI. Giuseppe Misso, o forse è meglio chiamarlo Michele Massa. Un boss, o forse meglio dire un “prelevatore” di ricchezze altrui. Un amante della letteratura e della filosofia che negli anni ha impugnato pistole e seminato terrore. Ha ucciso e fatto risorgere. Un uomo dalle mille anime che si rincorrono e abbracciano, che si divorano e alimentano. Mille anime, ma con un unico volto. È stato un vero capo di camorra Giuseppe Misso, non solo del rione Sanità, ma di una buona fetta della città quando negli anni Novanta la malavita uccideva 200 tra donne e uomini all’anno. Dove i cartelli criminali si federavano la mattina e si sfasciavano la sera nel nome del Dio denaro. Un capo tra i vicoli dove si poteva moriva per uno sguardo di troppo. Ne ha di storie da raccontare Peppe “’o nasone”. Occhi profondi che ti entrano, ti scavano, ti rovistano e ti inquadrano. Quando era il boss doveva decidere in pochi secondi il destino di altri. E questa peculiarità gli è rimasta. Il suo primo libro, “I Leoni di Marmo”, non è più bastato a contenere quanto ancora aveva da dire. E così lo ha riscritto. Il nuovo romanzo esce per Milieu, la casa editrice di Edoardo Caizzi. Misso ora è un collaboratore di giustizia che ha una caratteristica rara per i pentiti: non è mai stato smentito e le sue accuse hanno permesso centinaia di arresti. Adesso ha nuove verità, accuse e nomi da segnare con la matita rossa. Archiviare e analizzare. E c’è anche un capitolo su Raffaele Cutolo. La maturità degli anni passati a leggere e a scrivere e il modo pittoresco e scenografico di raccontare la criminalità, la perfidia, la vendetta, i sogni, le aspettative. Quello che è stato, che non sarà più e che ancora potrà arrivare. Tanto che la storia della sua vita e quel libro, diventeranno presto una fiction. Perché la storia di Misso, si voglia o no, è anche la storia di Napoli. Una vita che non ha precedenti. Lui dice di essere un bandito e di aver scelto la strada del crimine per combattere il crimine. Oggi Misso è un collaboratore di giustizia in una località segreta, con alle spalle oltre 30 anni di carcere per vari reati, tra cui associazione per delinquere di tipo mafioso e omicidio. Un inizio, sempre lo stesso. Sui magnifici trecenteschi leoni stilofori di Tino Di Camaino che si trovano sulla facciata del Duomo di Napoli, ai lati del portale centrale; su quei leoni da sempre si siedono i bambini, fingono di cavalcarli, di domarli, e domandoli diventano i re di Napoli. Un finale ancora da scrivere. Il racconto ha inizio con Michele Massa che esce dal carcere di Poggioreale, in libertà provvisoria. Siamo nel 1979 e Massa è un rapinatore già noto in città: «[…] tutti dicevano che nel mio campo ero il miglior prelevatore. Intorno alla mia persona si era creato un alone di mistero e di fascino...». A Poggioreale era stato due anni, eppure, una volta uscito troverà la sua Napoli radicalmente trasformata dalla presenza di una nuova organizzazione criminale: «La lunga gestazione del malaffare degli amministratori pubblici aveva partorito un gelido mostro, questa volta tossico: la nuova camorra». Sceglie una strada diversa, non si allea con nessuno, sceglie la via dell’indipendenza. Contrario ai traffici di droga, contrario alle estorsioni. Massa aveva aperto un’attività commerciale in via Duomo ed era quindi anche lui soggetto ad aggressioni per fini estorsivi: «Il pensiero che prima o poi dovevamo sparare per uccidere mi assillava. In fondo non chiedevamo tanto: volevamo essere indipendenti dalle organizzazioni camorristiche, senza per questo subire ricatti, violenze, offese. Chiedevamo soltanto autonomia e rispetto per le nostre scelte. Era utopia?». E più avanti: «Non avrei mai potuto sottostare all’arroganza e alla prepotenza di chicchessia, tanto meno dell’infame camorra». E, infatti, Massa reagisce con disgusto quando scopre di essere ricercato dalle forze dell’ordine nell’ambito di un’operazione contro la Nuova Famiglia: «C’era anche il mio nome nell’interminabile lista delle persone da ricercare: incredibile! Mi battevo contro la camorra e lo Stato ordinava la mia cattura per associazione camorristica...». Il carcere, che è un passaggio obbligato per chi vive di camorra. Lui in galera c’è stato quasi trent’anni tra le mura di Poggioreale, Pianosa, Rebibbia, Ariano Irpino, Ascoli Piceno, Sollicciano, poi a Spoleto, Parma e ancora altri penitenziari, e critica le condizioni di vita dei detenuti, racconta di soprusi e omicidi derubricati come suicidi: «A Poggioreale - scrive - sono stipati circa 2.500 reclusi: milioni e milioni di lire che spariscono nel fetore di una brodaglia. Quella prigione è fuorilegge non perché c’è il sovraffollamento, ma perché si trova a Napoli e rispecchia fedelmente le caratteristiche di questa città: disorganizzazione endemica, scarsa professionalità, corruzione a tutti i livelli, approssimazione, furbizia spicciola, sporcizia atavica. Le condanne, specialmente se associate alle percosse, non correggono nessun criminale». Misso e la politica. Ne parla con il distacco dovuto per chi «è riuscito a tramutare il fango in oro, e ha scoperto, con la camorra, l’elisir di una lunga vita politica. Con la disoccupazione e la miseria che attanagliavano Napoli, la camorra stava diventando un’industria per tanti disperati: distribuiva lavoro! Era un grande serbatoio di voti, che il regime poteva controllare. Poco importava se a lungo andare l’economia della città moriva di violenza insieme a tanti esseri umani. L’importante era che al momento la camorra serviva. Infine, sui “nuovi criminali”, i politici potevano scaricare le colpe di una città stuprata dal degrado, dall’incuria, dall’abbandono...». I processi, le guerre, le condanne, il carcere, le assoluzioni, le vendette “per amore”, l’odio atavico e la vita personale. La nascita del suo primo figlio mentre è in carcere, la morte della madre durante la sua detenzione e l’impossibilità di vederla un’ultima volta. E ci sono le lotte contro i clan al cui fianco non ha mai voluto schierarsi, quello dei Giuliano e l’Alleanza di Secondigliano. Un libro che è una bussola per chi vuole studiare la camorra. Interpretarla. Analizzare i fatti del passato. Ma anche un potente monito per chi sceglie le strade del terrore. Che sono solo due: morire o la galera. Perché il crimine non paga mai. E Misso lo sa.

Nelle foto Giuseppe Misso “’o nasone” e il suo libro “I Leoni di Marmo”

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