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28 Luglio 2021 - 07:00
Da operaio o impiegato a “operatore” al servizio della cosca in vari ruoli
NAPOLI. È il camorrista 4.0, futuristico e non visionario: di giorno al lavoro come operaio o impiegato, di sera impegnato in summit verticistici o in mansioni minori ma pur sempre operative. Una strategia concreta che serve come copertura per nascondersi alle indagini vecchio stampo, quelle per intenderci che si fanno in strada con gli informatori e l’osservazione. Mentre non basta contro gli accertamenti di natura tecnica e le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Come dimostra l’ultima inchiesta sul clan Amato di Secondigliano e Melito, piena di vicende ricostruite grazie ai pentiti con puntuali riscontri trovati dagli uomini dello Stato. Dell’ultima forma di partecipazione a un’associazione di tipo mafioso hanno scritto il gip del tribunale di Napoli e la Dda in un’ordinanza di custodia cautelare eseguita il mese scorso. Il riferimento non era a un singolo caso, anche se è il più eclatante (ne scriviamo in questa stessa pagina), ma alla “realtà dinamica” che caratterizza i clan negli ultimi anni.
Persino quelli storici, retti su solide tradizioni gerarchico-familiari, si sono adeguati e pur di sfuggire alla morsa sempre più stringente degli inquirenti ne inventano una ogni giorno. Ma dall’altro lato fior di professionisti dell’investigazione hanno preso ormai le misure. «La giurisprudenza di legittimità», si legge nel provvedimento restrittivo eseguito l’8 giugno scorso a carico di 34 indagati, «ha fatto rientrare tra le molteplici forme di appartenenza, la permanente “disponibilità” al servizio dell’organizzazione a porre in essere attività delittuose».
E poi: «In tale precisa ricostruzione si è assunto che la condotta del singolo associato non sia necessariamente catalogabile in un ruolo stabile e predefinito, poiché il sodalizio mafioso è una realtà dinamica, che si adegua continuamente alle modificazioni del corpo sociale e all’evoluzione dei rapporti interni tra gli aderenti, per cui le forme di “partecipazione” possono essere le più diverse e possono addirittura assumere caratteri coincidenti con normali esplicazioni di vita quotidiana o lavorativa, conferendo rilievo alle “frequentazioni” stabili con mafiosi, in presenza di determinate condizioni di riscontro». Il caso più eclatante è rappresentato da Marco Liguori, imparentato con gli Amato e perciò destinato prima o poi ad assumere compiti di rilievo all’interno del clan degli ex “scissionisti”. Nonostante abbia continuato a lavorare in una lavanderia di Melito con mansioni di controllo qualità, era già da tempo il numero uno del gruppo di malavita. Come il 30 luglio 2019 ha raccontato ai pm antimafia il pentito di origini bulgare Tsvetan Sabev: «Sino al giorno del mio arresto il capo del clan è Marco Liguori, reggente sin dal momento della sua scarcerazione, un anno e mezzo fa».
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