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Spaccio nel fortino del clan, in manette il figlio del boss

Spaccio nel fortino del clan, in manette il figlio del boss

Il rampollo degli Abbinante preso insieme al complice Domenico Esposito. Blitz a Scampia, Francesco Pio Esposito trovato con “erba” e cocaina

NAPOLI. Sabato sera gli agenti dei commissariati Scampia e Secondigliano, durante un servizio di contrasto allo spaccio di sostanze stupefacenti, hanno notato presso i porticati degli edifici del lotto SA/1 in via Giuseppe Fava due uomini che consegnavano qualcosa ad alcune persone in cambio di denaro. I poliziotti li hanno raggiunti e bloccati trovandoli in possesso di 24 bustine contenenti 24 grammi di marijuana, 20 involucri con 5 grammi circa di cocaina e 315 euro. Domenico Esposito e Francesco Pio Esposito, napoletani di 48 e 19 anni con precedenti di polizia, sono stati arrestati per spaccio e detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti. Francesco Pio Esposito è il figlio del più “noto” Giovanni “’o muort”, boss e killer del clan Abbinante. Il gruppo con base nel rione Monterosa e nello Chalet Bakù era tornato alla ribalta della cronaca poche settimane fa, precisamente il 21 giugno, quando è stato colpito da un nuovo blitz. I destinatari dei provvedimenti sono il boss Antonio Abbinante, suo nipote Raffaele e altre quattro persone: Antonio Esposito (figlio del boss Giovanni “’o muort” e fratello di Francesco Pio), Salvatore Morriale, Paolo Ciprio (l’unico dei sei inizialmente resosi irreperibile) e Arcangelo Abbinante, anche lui nipote di Antonio e, come Raffaele, elemento di spicco del clan.

A quest’ultimo, preso a Villaricca, viene contestata l’associazione per delinquere di t po mafioso, ma non il tentato omicidio, che invece, viene ritenuto sussistente per i restanti cinque. Stando a quanto emerso dalle indagini, condotte in tempi rapidissimi tra marzo e aprile scorsi, a pronunciare la sentenza di morte era stato il boss Antonio Abbinante, che si trovava ai domiciliari e che, secondo quanto emerso dall’attività investigativa, dopo la sua scarcerazione aveva irrigidito ulteriormente il tenore delle decisioni. Una guida, la sua, dove la linea del terrore era prevalente. Ed è proprio nell’ambito di questo giro di vite che lo storico ras del Monterosa avrebbe disposto l’omicidio dell’affiliato. Per “lavare” l’onore del suo uomo in carcere e scongiurare rivelazioni compromettenti, non ha esitato a decretare la morte di quello che veniva considerato l’amante della moglie del suo affiliato. La polizia e la Dda sono riusciti a intercettare l’intento ma in un primo momento non l’identità della futura vittima.

E, infatti, è stato necessario un notevole e ulteriore sforzo investigativo per scoprire il nome del condannato a morte. Una volta acquisita l’identità, forze dell’ordine e magistratura hanno fatto capire agli indagati di essere sulle loro tracce, con una serie di perquisizioni domiciliari che però non hanno sortito gli effetti desiderati. Ripresisi dalla sorpresa, infatti, gli indagati hanno ripreso a progettare l’omicidio, come nulla fosse successo. La Dda e a Squadra mobile sono stati quindi costretti a decidere d’urgenza l’emissione e l’esecuzione dei fermi quando è saltato fuori che, tra Marano e Arzano si stava scavando anche la fossa che avrebbe dovuto accogliere il cadavere della futura vittima. Luigi Rignante doveva essere infatti attirato in una trappola con la convocazione per un presunto incontro chiarificatore nel luogo dov’era stata preparata la fossa. Il piano non andò però a buon fine.

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