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06 Novembre 2021 - 17:11
NAPOLI. Il brutale assassinio di Bruno Guidone, ammazzato a colpi di pala per ingraziarsi l’allora egemone clan Misso, resterà avvolto nel mistero ancora per molto tempo. Oltre vent’anni di processi e indagini, di cui una archiviata, non sono infatti bastati a stabilire che i fratelli boss Ezio e Giuseppe Prinno fossero al di là di ogni ragionevole dubbio i responsabili morali del delitto. Condannati in primo e in secondo grado a trent’anni di reclusione a testa, ieri pomeriggio la Corte di Cassazione ha “salvato” i capizona di Rua Catalana annullando senza rinvio le precedenti condanne.
Un colpo di scena clamoroso, maturato a causa di uno scivolone tecnico nel quale è incappata la Procura: l’atto con il quale veniva comunicata alle parti la riapertura delle indagini non è stato mai formalizzato. Proprio su questo aspetto si è focalizzato il lavoro degli avvocati Leopoldo Perone e Mauro Zollo, legali dei due imputati, i quali innanzi ai giudici della prima sezione della Corte di Cassazione sono riusciti a dimostrare che l’azione penale non poteva essere promossa per mancanza della condizione di procedibilità della riapertura delle indagini. Il verdetto degli Ermellini ha così spazzato via in un colpo solo tutte le precedenti condanne che i fratelli Prinno avevano incassato nei processi di merito, dove entrambi erano stati riconosciuti colpevoli sulla scorta delle accuse lanciate nei loro confronti dall’ex boss Giuseppe Misso e di una sfilza di nuove intercettazioni.
L’omicidio di Bruno Guidone, fedelissimo del defunto ras dei Quartieri Spagnoli Antonio Ranieri “polifemo”, sembra a questo punto destinato a rimanere irrisolto ancora a lungo. La nuova ordinanza contro gli esponenti della storica cosca familiare di Rua Catalana, legata a doppio filo con i Misso e con i Mazzarella, era stata spiccata nel 2012, a oltre dodici anni di distanza dall’omicidio di “Brunello” Guidone, che pagò con la vita non solo il fatto di aver seguito Ranieri “Polifemo” dopo la sua scarcerazione, il quale si era avvicinato all’Alleanza di Secondigliano e in particolare alla famiglia Licciardi, allontanandosi dai Prinno, ma anche il fatto di aver chiesto una tangente da 150 milioni di vecchie lire a una ditta che operava nel Porto di Napoli, zona per anni sotto il controllo della cosca di base a due passi da piazza Borsa.
Il delitto sarebbe scaturito dunque da un doppio movente: da un lato un regolamento di conti tutto interno alla malavita del centro storico di Napoli, dall’altro la volontà dei Prinno di mostrare ai Misso la propria fedeltà: la storica cosca con base tra via Duomo e il rione Sanità già all’epoca era infatti in guerra con i Licciardi, gruppo criminale al quale il riferimento di Guidone aveva deciso di avvicinarsi. Quella che ne derivò fu un’esecuzione spietata, con “Brunello” che venne letteralmente massacrato e ucciso a colpi di pala. Nonostante le successive dichiarazioni accusatorie rese da Giuseppe Misso e Pasquale Rosario De Crescenzo, ex uomo dei Mariano, i Prinno sono però riusciti a evitare la stangata.
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