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Calvario finito dopo 7 anni, non aiutarono il ras in fuga

Calvario finito dopo 7 anni, non aiutarono il ras in fuga
Per gli inquirenti avevano ospitato a Forcella il capo della paranza

NAPOLI. Ci sono voluti sette anni e un interminabile iter processuale, ma alla fine la pesante accusa che pendeva sulla loro testa - favoreggiamento aggravato dalla finalità mafiosa - si è sciolta come neve al sole. Milena Del Gavio e Salvatore Carrese, rispettivamente suocera e cognato del boss dei Decumani Pasquale Sibillo, sono stati assolti con formula piena per non aver commesso il fatto. I due imputati erano sospettati di aver agevolato nell’estate del 2015 la latitanza del ras di piazza San Gaetano: l’avrebbero fatto ospitando all’occorrenza il capo della “paranza dei bambini” nella propria abitazione di vicoletto Angiporto dei Caserti e per questo motivo subirono anche il sequestro di un impianto di videosorveglianza trovato nella loro disponibilità. Di quelle accuse non resta però oggi più nulla. I giudici della prima sezione penale del tribunale di Napoli, con la sentenza pronunciata ieri mattina, hanno dato pieno accoglimento alle argomentazioni del legale dei due imputati, l’avvocato Riccardo Ferone, il quale ha sostenuto e dimostrato che dalle indagini non è emersa alcuna condotta tale da configurare il reato di favoreggiamento: in particolare, non ci sarebbe stata alcuna prova che Pasquale Sibillo, poi stanato il 4 novembre 2015 a Terni, fosse effettivamente mai stato nel loro appartamento di Forcella.

Per questo motivo i giudici di primo grado hanno deciso di assolvere Del Gavio e Carrese e contestualmente hanno disposto il sequestro di tutti i beni requisiti nel corso della perquisizione eseguita il 10 agosto, nel pieno della latitanza di “Lino” Sibillo. Per gli imputati la Procura aveva invocato una condanna a due anni a testa. Il controllo in casa Del Gavio-Carrese era scattato in seguito al primo maxi-blitz ai danni della “paranza dei bambini”: una retata colossale, alla quale i fratelli ras Emanuele e Pasquale Sibillo riuscirono però clamorosamente a sottrarsi. Quella che ne scaturì fu un’incessante caccia all’uomo, con le forze dell’ordine impegnate notte e giorno a pattugliare i vicoli del centro storico di Napoli.

Vale la pena ricordare che in quel periodo la faida di Forcella, che vedeva i Giuliano-Sibillo contrapporsi ai Mazzarella-Buonerba, aveva raggiunto il proprio apice di violenza: non a caso di lì a breve a perdere la vita fu proprio il babyras Emanuele. Quanto a Pasquale Sibillo, la sua resa arrivò qualche mese più tardi: il 4 novembre. I poliziotti della Squadra mobile di Napoli lo stanarono a Terni e a tradirlo era stato un tatuaggio si un avambraccio, raffigurante delle carte da gioco e il “17”, il numero identificativo dei Sibillo. Nonostante le foto segnaletiche e le indagini condotte, gli investigatori non erano infatti completamente certi della sua identità. Una volante ha quindi simulato un normale controllo nel centro della città mentre la zona era comunque presidiata seppure in maniera discreta. La vettura è stata fermata e all’agente che lo ha identificato ha fornito un nome e documenti risultati falsi. A quel punto il poliziotto gli ha leggermente alzato il maglioncino con la scusa di verificare se avesse qualcosa indosso. È stato così individuato il tatuaggio e il boss è stato bloccato. Secondo gli investigatori il giovane latitante aveva appoggi nella città umbra, presso diversi parenti. Era infatti ospitato in un’abitazione del centro ternano. La polizia è risalita a Sibillo anche grazie a diversi pedinamenti. In seguito sono arrivate diverse condanne, anche di assoluto spessore, ma con quella fuga i due parenti non c’entravano.

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