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Pronti ad ammazzare l’affiliato, stangata ai ras degli Abbinante

Pronti ad ammazzare l’affiliato, stangata ai ras degli Abbinante

Tentato omicidio Rignante, il “padrino” del Monterosa condannato a 20 anni. Niente sconti ai sei uomini del commando, 9 anni all’obiettivo poi pentitosi

NAPOLI. Prima stangata giudiziaria per il commando di morte pronto ad assassinare l’affiliato Luigi Rignante e a farne sparire il cadavere, con tanto di fossa già pronta all’“uso”. Il gotha della mala del rione Monterosa di Scampia torna alla sbarra per la conclusione del processo di primo grado celebrato con il rito abbreviato e quella che ne viene fuori è una sfilza di condanne a dir poco severe: la più consistente delle quali è stata quella inflitta al boss Antonio Abbinante, 20 anni di reclusione. Anche gli altri coimputati hanno comunque avuto poco di cui sorridere.

Il gup Vinciguerra, dando ampio accoglimento alle richieste di condanna avanzate dalla Procura a settembre, ha inflitto 10 anni ad Arcangelo Abbinante, che rispondeva però solo di associazione mafiosa e non dello sventato fatto di sangue, 16 anni a Paolo Ciprio, 16 anni a Salvatore Morriale, 9 anni e 4 mesi al collaboratore di giustizia Luigi Rignante, pentitosi subito dopo essere scampato all’agguato, ma comunque accusato di gravi reati, tra cui quello di associazione mafiosa. Il rampollo Raffaele Abbinante, difeso dall’avvocato Claudio Davino, è invece riuscito a limitare i danni, rimediando 14 anni di reclusione a fronte dei 18 invocati dal pubblico ministero. Antonio Esposito, figlio del boss detenuto Giovanni Esposito “’o muort”, è stato invece l’unico imputato a scegliere il rito ordinario. Per lui la sentenza è attesa nei prossimi mesi.

Gli imputati, nessuno escluso, hanno affrontato il rito abbreviato senza mai profferire parola: dunque nessuna confessione o dissociazione. L’inchiesta che ha portato i sei ras alla sbarra risale al giugno 2021, quando vennero eseguiti gli arresti. Le indagini confermarono ancora una volta che negli ambienti di mala ci sono sgarri imperdonabili.

Di questo erano più che convinti i capi del clan Abbinante, i quali, dopo aver appreso che uno dei propri affiliati, Luigi Rignante, aveva intrecciato una relazione clandestina con la moglie di uno degli storici capipiazza della cosca, Luigi Mari, attualmente detenuto, avevano deciso di eliminarlo e farne sparire il cadavere.

L’assassinio era stato deciso, pianificato nei minimi dettagli ed era stata persino scavata a fossa in cui occultare il cadavere: nelle campagne di Marano. A salvare la vittima designata sono stati i provvedimenti di fermo disposti dalla Dda di Napoli ed eseguiti dalla Squadra mobile nei confronti dei ras del rione Monterosa.

A pronunciare la sentenza di morte ferma restando la presunzione di innocenza fino all’eventuale condanna definitiva era stato il boss Antonio Abbinante, che si trovava ai domiciliari e che, secondo quanto emerso dall’attività investigativa, dopo la sua scarcerazione aveva irrigidito ulteriormente il tenore delle decisioni. Una guida, la sua, dove la linea del terrore era prevalente. Per “lavare” l’onore del suo uomo in carcere e scongiurare rivelazioni compromettenti, non ha esitato a decretare la morte di quello che era l’amante della moglie del suo affiliato. Dì a breve Rignante si sarebbe poi anche pentito.

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