Cerca

La storia del vinaio borbonico: «Mi chiamavano cafoncello»

La storia del vinaio borbonico: «Mi chiamavano cafoncello»

Il cavalier Antonio Caputo, patron di Enodelta, racconta la sua storia di uomo del Sud

ACERRA. C’erano una volta i vinai che parlavano una lingua antica e oggi misteriosa, perché avevano termini oggi finiti in disuso: “ ’o muto ’e trafico; ’a lancerna, ’o circhio e ’o tumpagno”... Bisogna chiedere al cavalier Antonio Caputo, per farseli spiegare. L’imprenditore di Afragola è un innovatore nel suo mestiere, che ha rispolverato l’antica professione del nonno - abbandonata dal padre - riappropriandosi dei segreti della produzione e del commercio del vino ereditati dalla “zia Gabriella, col cappellaccio” «che non si è mai sposata, ma saliva sui carri del trasporto del vino insieme con gli operai e vendeva il vino nel dopoguerra. E che ha tramandato alla mia famiglia il nobile lavoro  “d’‘o cantiniere”». «Era così che anche io mi definivo quando avevo poco più di 20 anni e decisi che il mio futuro non sarebbe stato quello di un impiegato in ufficio, lavoro al quale, negli anni ’80, tutti aspiravano - racconta Caputo - mi giudicarono un pazzo, a partire da mio padre che aveva rinunciato a questa attività per un posto di tramviere». Un piccolo capitale d’inizio per comprare del vino («ho sempre pensato che il capitale doveva essere mio, non dovevo andarlo a “comprare’ dalle banche», dice) e cominciare a rivenderlo con un mini dépliant «che pensai di farmi da solo, fotografando le bottiglie», racconta il titolare di Enodelta, un’azienda giunta ormai alla quarta generazione, che adesso - nello stabilimento ad Acerra - imbottiglia vini di pregio provenienti da vitigni di Ischia, Campi Flegrei, Mondragone, Sannio e Vesuvio. Ma mentre ricorda la sua prima cliente, «la signora Enrichetta Del Prete che a Frattamaggiore decise di mettermi alla prova comprandomi le prime bottiglie di vino», Caputo si commuove... «Emozionato - racconta - mi impappinai e le feci un prezzo che per me era in perdita. Ma io non ho mai pensato ad arricchirmi. A mano a mano che vendevo, pensavo sempre a creare altro: acquistai dei macchinari così malandati, per imbottigliare il mio vino, che fu un miracolo riuscire a farli partire». E, in tutta umiltà, la sua prima etichetta fu il soprannome che gli davano i suoi compratori napoletani: “’O Cafonciello”. Ora, però, i vini che Enodelta esporta all’estero sono di tutt’altro prestigio, guadagnandogli apprezzamenti che lo hanno riscattato da tutti i sacrifici da self-made man. «La svolta me la diedero i premi che i miei vini ottennero agli inizi degli anni ’90 - spiega il cavalier Caputo - mi presentai con due etichette a un concorso dell’Ersac per vini campani. Fu un concorso serissimo. La giuria non sapeva di chi fossero quei prodotti ed entrambi i miei vini ottennero un punteggio altissimo. Così, cominciai a produrre con un’etichetta solo per ristoranti:  “Hackert”, il nome del grande ritrattista della Corte dei Borbone». Riaffermare la gloria del Regno delle Due Sicilie è una delle aspirazioni del cavalier Caputo. L’imprenditore afragolese è un appassionato sostenitore dell’autonomia del Sud, borbonico convinto. E nel 2000 fece parlare tutta l’Italia con la sua offerta provocatoria di lavoro a “un operaio padano originale”, al quale offriva mille euro al mese per venire a lavorare al Sud. Una risposta ai luoghi comuni anti-meridionali: «Venite a vedere come si lavora qui. Siamo stati per secoli produttori di ricchezza e di bellezza. Poi, dopo l’unità d’Italia ci hanno raccontato che eravamo straccioni, pigri, disonesti... una storia da riscrivere». Oggi guarda con orgoglio lo stabilimento che gestisce insieme ai due figli, Nicola e Annina (enologa), e produce 400mila bottiglie all’anno. 

Commenta scrivi/Scopri i commenti

Condividi le tue opinioni su Il Roma

Caratteri rimanenti: 400

Logo Federazione Italiana Liberi Editori