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16 Luglio 2023 - 09:20
NAPOLI. Almeno due le piste investigative seguite dagli uomini del commissariato polstato di Acerra, sul ritrovamento delle due sacche di sangue nelle vicinanze dell’Asl di Corso Vittorio Emanuele e sulle scale del palazzo municipale di Viale della Democrazia, Indagini serrate anche sul fallito tentativo d’incendio del condominio di proprietà dei Pellini, ubicato in via Alcide De Gasperi. È chiaro, per entrambi i casi, che si tratta di gesti inconsulti di mitomani, certamente pericolosi, motivati da un odio ingiustificabile. Da quanto è trapelato, i due episodi avrebbero un’unica regia. A tentare di mettere a segno l’incendio, che puntava a spaventare chi e quanti abitano in quel condominio, sarebbero stati tre giovanissimi, più volte immortali da alcune telecamere private che sono in zona ed addirittura dalle telecamere di sorveglianza cittadina. Ovviamente da parte degli investigatori vige il massimo riservo. Relativamente alle sacche, sembra (il condizionale è d’obbligo) che una sia effettivamente sangue umano e pertanto si cercando di comprendere da dove possa provenire. Costantemente monitorate, fin dalle primissime battute dell’attività investigativa, diverse pagine social ed alcuni siti web locali, frequentati per lo più da soggetti che da tempo hanno avviato attraverso i social, una campagna di odio contro i Pellini, rei (secondo gli ambientalisti), di aver provocato un disastro ambientale. Che, però, nessuno certifica. Nemmeno il consulente del Tribunale di Napoli Giovanni Auriemma, che nel corso del suo controesame all’udienza del 26 giugno del 2009, richiamato nella sentenza di condanna dei Pellini, rispondendo alle domande dell’avvocato Bassetta, aveva detto «io che c’è contaminazione di Pcb e diossina dai giornali nell’ambito di Acerra, Grotta reale». Alla richiesta del legale di sapere se ci fossero tracce di contaminazione nelle località di Lenza Schiavone e via Tappia, Auriemma, replicava: «Non abbiamo fatto determinazioni che possono riscontrare o analizzare questi tipi di elementi. Non l’abbiamo fatto». E la Corte d’Appello, in un passaggio della sentenza, aveva sostenuto che «invero, è pacifico e va ribadito anche in questa sede che nel processo in esame, nonostante la durata e l’ampiezza delle indagini, non venivano espletate le opportune analisi del terreno e delle falde acquifere per accertare l’effettività della contaminazione. Tali analisi avrebbero richiesto secondo quanto riferito dallo stesso consulente della pubblica accusa, almeno cinque sondaggi per un area di 10mila metri quadrati con notevoli costi».
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