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26 Febbraio 2024 - 09:15
Il racconto pieno di particolari di quel periodo difficile non è solo un mero esercizio aneddotico ma scivola nella rivendicazione della propria italianità, per troppo tempo costretta a rimanere sullo sfondo. Gli esuli ancora in vita e i familiari di chi fuggì dall’Istria, dalla Dalmazia e da Fiume con la paura di finire nelle grinfie del leader comunista jugoslavo Tito sentono di poter narrare senza portare più lo stigma dell’emarginazione. «Dopo settant’anni finalmente si parla di noi». Paolo Roitz (nella foto), 93 anni, è tra i presenti alla cerimonia del Treno del Ricordo. Vive ancora a Napoli ma l’accento friulano resta. «Il famoso maresciallo Tito – aggiunge - ci diede un calcio nel sedere perché voleva dimostrare alle Nazioni Unite che in Istria, in Dalmazia e nel Venezia Giulia, che considerava territori jugoslavi, non c’erano più italiani. Ancora oggi in ex Jugoslavia c’è chi inneggia a lui. In Italia sino al 1943 eravamo tutti fascisti, poi dopo la sua caduta non lo era più nessuno. Io è logico che sono stato fascista se non lo fossi stato non sarei neppure potuto andare a scuola e a lavorare». Paolo racconta il peregrinare tra varie regioni italiane sino all’approdo a Napoli. «Le truppe di Tito sono entrate a Fiume il 3 maggio 1945. Una settimana più tardi mio padre, lavoratore in un cantiere navale a Fiume, fu arrestato dai militari per colpa della delazione di un collega croato: disse che mio padre era fascista. Tornato dopo alcuni mesi di prigionia in un campo di concentramento, lasciammo definitivamente Fiume». Poi l’approdo a Capodimonte fatto di baracche di metallo costruite dagli americani». Per sopravvivere, Paolo si cimentò nei lavori più umili. «La fame ti fa accettare tutto. Tra i miei impieghi ci fu quello della distribuzione del pane. C’era ancora la tessera annonaria». Dopo tanti sacrifici, Paolo divenne a Napoli un impiegato Telecom sino alla pensione. Secondo Nadia De Vescovi, figlia di Arno, altro protagonista dell’esodo e amico di Paolo Roitz, «in certi ambienti c’è stata un’eccessiva politicizzazione di questa vicenda nascosta per troppo tempo». E sul rischio di strumentalizzazioni politiche sulla vicenda foibe, Nadia è chiara: «Potrebbe essere ma non diamo tanto peso ma a me fa piacere ci sia stata questa giornata per chi l’ha vissuta. Anche mio papà è stato presidente dell’associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia». Di fianco a Nadia c’è sua madre Giuseppina Pollicino. «Quando con mio marito sono andata a Fiume la prima volta nel 1967 mi sono sentita subito cittadina del luogo, accolta bene dai parenti che hanno scelto di restare in Jugoslavia nonostante un clima ostile attorno. Dopo la morte di Anno non ci sono più tornata» dice.
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