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Il caso
09 Ottobre 2024 - 08:47
Nino Nicois
NAPOLI. È napoletano Marco Nicois, l’operatore della troupe di Rai3 al seguito dell’inviata Lucia Goracci, aggredita in Libano nei pressi di Sidone dove stavano descrivendo e raccontando le vicende belliche in quel territorio.
Il papà di Marco, Nino (Gaetano, primo fotografo a scattare la foto di Maradona a Napoli), è il titolare dell’agenzia Prima Pagina che fornisce troupe di operatori che hanno scelto di lavorare con inviati e corrispondenti sui campi di guerra per informare e documentare i conflitti e le aree di crisi nel mondo, sempre più frequenti e pericolosi negli ultimi anni.
Marco, 42 anni, che è sposato e ha due figli (la famiglia vive a Napoli), è il primo operatore napoletano che esce formato dall’agenzia e il Libano non è certo la sua prima missione all’estero.
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Innanzitutto come sta suo figlio Marco?
«A parte lo spavento, sta bene. Mi ha telefonato subito dopo l’aggressione alla troupe a Jiyneh, dove la Goracci stava documentando ciò che stava accadendo in Libano da alcuni giorni».
Suo figlio le ha raccontato se in precedenza c’erano stati dei segnali d’insofferenza nei confronti dei giornalisti stranieri?
«Ma no, niente lasciava presagire un attacco da parte degli Hezbollah locali».
Ci sono stati atteggiamenti ostili della popolazione locale noi loro confronti?
«No, anzi. Anche perché la gente parlava volentieri con loro».
E allora cos’è accaduto?
«La situazione era tranquilla, fino a quando un uomo ha cercato di impossessarsi della telecamera. Un episodio che ha costretto la troupe a risalire subito in macchina, anche perché sono sbucate altre persone che hanno cominciato a spintonare l’auto».
E poi?
«L’auto della troupe è andata via veloce, nonostante questo un gruppo di facinorosi li ha inseguiti fino a un distributore. Lo stesso uomo protagonista delle intemperanze e delle pedate all’auto, ha strappato le chiavi all’autista tentando di prendere anche la telecamera di Marco dal finestrino aperto, mentre nessuno veniva in aiuto. L’autista, Ahmad, cardiopatico, ha tentato di tranquillizzarlo ma si è accasciato a suolo colpito da un malore. Poco dopo il suo cuore si è fermato in ambulanza durante il tragitto in ospedale».
Suo figlio parla l’arabo?
«No, l’inglese ma ogni troupe ha al seguito un interprete. Così è stato anche in Ucraina. In questo caso l’autista, purtroppo deceduto, era l’interprete».
Quello dei giornalisti e dei loro operatori di guerra è una storia costellata di paure e lacrime.
«Sì, ho trasmesso a Marco la passione per questo mestiere da grande. Per due anni ha documentato il conflitto in Ucraina, successivamente in Medio Oriente».
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