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Il retroscena
04 Dicembre 2024 - 09:48
. “Lo zio” era il capo del gruppo nonché l’anello di collegamento tra gli organizzatori, i trasfertisti e i ricettatori. Giuseppe Esposito, napoletano di Secondigliano chiamato anche “il pizzaiolo”, si avvaleva soprattutto della collaborazione di Antonio Giordano di calata Capodichino che aveva compiti più specifici quali l’acquisto delle schede telefoniche da buttare dopo un uso molto limitato e tenere la lista delle potenziali vittime da aggiornare man mano. Nulla era lasciato al caso dai vertici della gang, nella puntuale ricostruzione dei carabinieri della compagnia di Caivano, coordinati nelle indagini dalla procura di Napoli Nord. Ma come sempre succede quando si commettono azioni illecite, l’imprevisto è arrivato sul più bello: uno degli indagati chiese a un’anziana quanto oro avesse in casa. «Ma come, non sai che l’ho già diviso?», fu la riposta meravigliata. In quel momento la donna capì che l’interlocutore fingeva di essere il figlio e così diede l’allarme. È successo nel rione Traiano in una delle poche vicende ricostruite in città: la banda infatti agiva in mezza Italia utilizzando pure dei minorenni. Premesso che tutti gli indagati devono essere ritenuti innocenti fino all’eventuale condanna definitiva, il ruolo primario di Giordano si evince da una frase pronunciata da Giuseppe Barretta “’o chiatton” mentre parlava al telefono con lui: «Io ho cominciato con te», a dimostrazione secondo gli inquirenti diretti dalla procuratrice Maria Antonietta Troncone che il sodalizio non era stato costituito di recente. In un’altra intercettazione il 40enne di Casoria mostrava di non volersi abbattere a causa degli arresti domiciliari cui era costretto: «È finita la giostra, ma non mi arrendo». Il gruppo, ben amalgamato e con un continuo turn over soprattutto nelle file dei trasfertisti-esecutori, aveva ai posti di comando, insieme al capo e al suo vice, altri due uomini: Umberto Paduano ed Emmanule D’Ercole. Mentre ad occuparsi degli aspetti logistici erano Arsenio Ascione, Stefano Di Guido, Alessio Di Guido (fratello), Gennaro Giappone, Giuseppe Barretta, Antonio Paragliola e Renato Coduas. Questi ultimi pensavano a procacciare i minorenni da inviare come trasfertisti e se non li trovavano, si proponevano loro. All’occorrenza potevano svolgere le funzioni di centralinisti contattando le vittime e noleggiando le macchine per recarsi alle abitazioni delle donne anziane (vittime preferite più dei maschi). Con un ruolo tutt’altro che secondario e più rischioso, l’organizzazione si serviva di 10 persone per il ritiro dei soldi e degli oggetti dai truffati. Lo stratagemma era sempre il solito: il figlio o il nipote che rischiava il carcere. Chi telefonava si fingeva il parente che chiedeva aiuto, in altri sosteneva di essere un avvocato o un maresciallo. Nella batteria anche Antonio Mallardo e Marco Fornaro.
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