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parlo napoletano

'A penna 'e ll'auciello grifone

(P’’o ddicere cu ati pparole ll’uosso ca canta)

'A penna 'e ll'auciello grifone

La compagnia teatrale Firmt ha portato ieri sera in scena “”’A penna ‘e ll’auciello Grifone – Ll’uosso ca canta” al Teatro Gloria di Pomigliano d’Arco. Lo spettacolo ha chiuso il cartellone natalizio del teatro, debuttando venerdì 31 gennaio 2025 alle ore 21. La piece teatrale in due atti vede la regia dicotomica di Luigi Milosa e Vincenzo Arena.

In una corte senza tempo ma con localizzazione facilmente inquadrabile dal napoletano-lingua-universale, una regina indifferente ed un re malvagio governano sul popolo di Napoli. La Napoli dipinta è più che familiare al pubblico: il popolo - unica massa, unica persona - è affamato e sosta giornate intere alla finestra delle cucine reali pur di poter quantomeno annusare, da lontano, un boccone; nessun cittadino si sogna di avvicinarsi al Largo di Palazzo per poter incontrare il re, principio e fine della dilagante miseria del “popolo dalle scarpe sporche”. Non a caso, colpito il re dalla cecità (causata- quasi per punizione divina- da un simil-ictus sopraggiunto durante uno dei suoi malvagi deliri), ogni popolano freme in attesa della sua incombente morte, da tutti tanto agognata. Compaiono a sprazzi le tipiche maschere favolistiche, tratti caratteriali stereotipati in personaggi, della Commedia dell’Arte:

il codardo: il Generale supremo delle truppe manda uomini a morire sul fronte e, inseparabile dalla sua-inutile- armatura, se ne va a spasso con il re al sicuro a corte;

il frate: il Cappellano di corte, avido e goloso, non rispetta neanche l’ultimo dei credi religiosi da lui professati;

il Pulcinella: comico, goffo, imbroglione, l’umile che riesce a salvarsi;

il Balanzone: il medico-sapientone dalle conoscenze completamente inutili… Parla tanto e non cura nessuno.

 

Come troppo spesso accade, è solo il pensiero - sopraggiuntogli in fin di vita - di aver vissuto una vita pregna di perfidia ed egoismo a condurre al turning point: il re e la regina rinsaviscono. Il popolo è pronto alla protesta e gli unici responsabili sono i regnanti. Hanno così inizio una serie di peripezie che vedranno protagonisti i due principi: il maggiore, malvagio e prepotente, e il minore, buono ed ingenuo. Qual è l’oggetto-valore del racconto? La penna di un grifone. È la Janara, figura della tradizione popolare dotata di poteri magici e capace di mandare maledizioni, a suggerire di essiccarla al sole, frantumarla fino a farne polvere e spargerla sugli occhi del re: così facendo avrebbe recuperato la vista. Chi dei due fratelli avesse ritrovato la penna avrebbe anche ottenuto il trono.

Un flauto magico, ricavato da un osso canterino, svela al pubblico ed al re quale sia stato il vero esito della vicenda:

Papà ca `mbocca me tiene,  tieneme astrinto e nun me lassà,  pe' `na penna d'auciello grifone,  fratemo è stato `nu traditore,  m'ha acciso e m'ha scannato,  e dint' `a `nu fuosso m'ha menato.

Il fratello maggiore, dopo aver scoperto che fosse stato il minore a trovare la penna, l’aveva accoltellato ripetutamente per poter usurpare il trono e diventare il peggiore dei regnanti.

La leggenda, nata da un antico canto raccolto dai Cantori Popolari Cavoti, spiega con il suo lieto fine conclusivo la nascita dei due celebri faraglioni del Golfo di Vietri: uno, verde e rigoglioso, è il figlio più piccolo; l’altro, brullo e scosceso, è il maggiore. I due sono destinati a giacere l’uno accanto all’altro in quella parte di mare dove, quattrocento anni prima, si narrava che il più malvagio dei figli fosse stato gettato per condanna a morte.

La compagnia teatrale Firmt ha portato ieri sera in scena “”’A penna ‘e ll’auciello Grifone – o Ll’uosso ca canta” – al Teatro Gloria di Pomigliano d’Arco- , accodandosi ad una lunga tradizione di rielaborazioni di questa tanto nota (e altrettanto sconosciuta) novella. “La penna dell’uccello grifone”, meglio nota con il titolo “L’osso che canta”, è quella fiaba che la mia bisononna raccontava a mia nonna, mia nonna a me e che io, auspicabilmente, riuscirò a raccontare ai miei figli; così come accade, da circa quattro secoli, a Vietri, a Napoli e in tutta la Campania, le vicende del regno salvato da un flauto canterino sono state decantate contemporaneamente dal folklore di tutta l’Europa centrale e settentrionale (la versione più celebre è quella inserita nelle Fiabe italiane di Italo Calvino).

Ad oggi, abbiamo la fortuna di poter ancora assistere, con i nostri occhi, ad una gemma narrativa che, con molte probabilità, andrebbe ormai pian piano scomparendo, come già accade per gran parte della nostra tradizione popolare: più di una compagnia teatrale, in nome “dei cantori della nostra terra” e “della loro voce, che è la nostra anima”, con determinatezza ha quindi deciso di assumersi l’onere di aedo, per le generazioni presenti e future.

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