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Camorra
20 Febbraio 2025 - 09:53
Nella foto Gennaro Ramondino; nel riquadro Domenico Di Napoli
Il babykiller della faida di Pianura condannato in primo grado a 15 anni e 4 mesi di carcere. Arrestato e poi rinviato a giudizio con l’accusa di essere stato l’esecutore materiale dell’assassinio di Gennaro Ramondino, il 20enne ucciso a colpi di pistola e poi dato alle fiamme l’1 settembre scorso, il giovanissimo imputato - sedici anni appena - ieri mattina ha incassato la prima, severa condanna per omicidio e distruzione di cadavere. L’adolescente, difeso dall’avvocato Antonella Regine, è stato però assolto dall’accusa di associazione per delinquere finalizzata al traffico di droga. Il gip del tribunale per i Minorenni ha anche escluso per lui l’aggravante della finalità mafiosa. Il pm La Ragione aveva chiesto invece 15 anni e 6 mesi di reclusione. Nel corso dell’udienza, prima del verdetto del gip, il sedicenne ha chiesto la parola e ha ammesso gli addebiti. Non l’ha fatto però con la consueta formula “secca”. Il presunto sicario ha infatti puntato il dito anche contro quello che sarebbe stato il mandante del delitto, Domenico Di Napoli, oggi collaboratore di giustizia, accusandolo di averlo plagiato: «È stato lui - ha spiegato in aula - a convincermi che Ramondino, che consideravo un amico, stava dando fastidio e che si impossessava dei soldi delle piazza di spaccio». Il giovane imputato ha però precisato di non aver mai fatto parte dell’organizzazione e di non aver mai venduto droga per conto della paranza nata da una costola del clan Esposito-Marsicano. Per il tremendo omicidio, oltre al giovane condannato ieri dal tribunale minorile, sono imputati anche il neo collaboratore di giustizia Domenico Di Napoli, Paolo Equabile e Nunzio Rizzo. Tutti e tre dovranno difendersi dalla pesante accusa di aver concorso, insieme al minorenne, alla distruzione e all’occultamento del cadavere del ventenne Ramondino. «Mi fa piacere se vengo condannato. Ma se a me danno 5-6 anni, quello deve prendere l’ergastolo». Così Nunzio Rizzo, ignaro delle microspie, si rivolse allo zio di Gennaro Ramondino nel raccontargli quanto aveva visto in quella tragica notte dell’1 settembre scorso in via Comunale Napoli, a Pianura, dove nello scantinato adibito a piazza di spaccio - una “base” che sarebbe stata diretta da Di Napoli - fu ucciso il 20enne di Fuorigrotta. «Genny non meritava di fare quella fine», concluse salutando e abbracciando l’interlocutore. Ma per la Dda e il gip lui e l’amico Paolo Equabile, entrambi però estranei all’esecuzione dell’omicidio e anzi sorpresi dall’azione di fuoco, avrebbero partecipato consapevolmente e senza essere costretti alla fase del trasporto del cadavere culminata nell’incendio, appiccato in località Torre Poerio da Domenico Di Napoli, in carcere per favoreggiamento e distruzione del cadavere. Nell’inchiesta erano coinvolti altri quattro indagati, che ruotavano tutti intorno alla piazza di droga. Ma mentre per Cristian Cacace e Luciano Ivone il gip aveva rigettato la richiesta di arresto, gli altri sono finiti in carcere.
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