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Il lutto

Roberto De Simone, pilastro delle tradizioni partenopee

Da poche settimane era stato dimesso dall’ospedale. Domani funerali al Duomo

Addio a Roberto De Simone, pilastro delle tradizioni partenopee

Roberto De Simone

NAPOLI. E mentre la solita Napoli delle celebrazioni post mortem, quella che Viviani aveva già inchiodato nella sua poesia “Campanilismo”, quella che piange a ferite aperte ciò che in vita ha ignorato o dimenticato, si prepara ora a vestirsi a lutto, arriva come un colpo al cuore la notizia della morte di Roberto De Simone (nella foto di Gilda Valenza).

Un addio che sa di rimorso collettivo. Perché con lui non se ne va soltanto un musicologo, un compositore, un regista, un antropologo, un intellettuale. Con lui se ne va un pezzo irripetibile dell’anima profonda di Napoli. Una perdita che nella storia della cultura partenopea può essere paragonata, senza alcuna enfasi, a quella di un Paisiello, di un Cimarosa, di un Jommelli, di un Basile moderno, visionario e popolare, colto e radicale insieme.

È morto a 91 anni, nella sua casa al Palazzo De Gregorio di Sant’Elia, in via Foria, dove era tornato da poche settimane dopo il ricovero all’ospedale dei Pellegrini per problemi respiratori che lo avevano fiaccato ma non vinto nello spirito. Se n’è andato nella sera del 6 aprile, poco dopo le 21, circondato dall’affetto discreto di chi gli era rimasto vicino fino alla fine: la sorella Giovanna, il nipote Alessandro, e forse, nel silenzio della sua stanza, i suoni lontani di un canto antico, di una tammorra o di un coro invisibile di voci contadine.

Domani, al Duomo di Napoli, alle ore 16, i funerali officiati dal cardinale Battaglia. E già si annuncia una folla devota, tardiva, pronta a tributargli onori solenni. Quegli onori che, ironia amarissima della sorte, troppo spesso gli furono negati in vita dalla stessa città che pure gli deve tutto. Perché Roberto De Simone, negli ultimi anni, aveva raccolto non solo riconoscimenti, ma anche amarezza, delusione, distanza.

A cominciare dal silenzio assordante sulla sorte dei suoi preziosi archivi, delle sue collezioni, del suo patrimonio di cultura popolare, rimasto troppo spesso orfano di una sede definitiva e degna. Per non parlare delle sue battaglie, lucide e accorate, in difesa del teatro San Carlo, che considerava snaturato acusticamente dai restauri moderni.

Un dolore che lo ferì nel profondo, perché quel teatro era stato, per lui, un tempio sonoro. Eppure, nonostante tutto, non smise mai di creare, di studiare, di scrivere. Rimase sempre fedele a quel destino di artista che gli era nato dentro, come un'eredità genetica: il nonno attore nella compagnia del''ultimo Pulcinella, Salvatore Di Muto; il padre suggeritore nelle sceneggiate popolari; la zia mezzosoprano.

Una famiglia che respirava teatro e tradizione. Una vocazione che si amplificò nell’incontro con Renato Caccioppoli, genio matematico, pianista e anarchico, che lo avvicinò all’idea di una cultura senza confini, dove la scienza e l’arte si intrecciano. Poi vennero gli studi, le ricerche sul campo, l’ossessione per le radici contadine, per i riti arcaici, per i suoni primordiali.

Nascevano, tra testi, composizioni e registrazioni, un gruppo come la “Nuova Compagnia di Canto Popolare” e poi capolavori come “La Gatta Cenerentola”, “La Cantata dei Pastori”, “Mistero Napoletano”, “L’Opera buffa del Giovedì Santo”, “Le Tarantelle del Rimorso” e “La Lucilla Costante”. Negli anni Settanta, De Simone insegnò Storia del teatro all'Accademia di Belle Arti di Napoli. Dal 1981 al 1987, ricoprì il ruolo di direttore artistico del teatro San Carlo, dove realizzò numerose regie d'opera. Nel 1995, fu nominato direttore del Conservatorio di San Pietro a Majella, guidando l'istituzione con visione e dedizione.

Nel 1998, divenne Accademico di Santa Cecilia e fu insignito del Cavalierato delle Arti (Chevalier des Arts et des Lettres) dal Presidente della Repubblica francese. Tutto ciò, mentre le sue opere compivano il giro del mondo, portando la cultura popolare napoletana e meridionale nei teatri di Vienna, Parigi, Berlino, New York. E Napoli? Napoli lo guardava, lo applaudiva, ma a distanza.

Come se la sua grandezza facesse paura. Come se quel rigore, quella radicalità, quella purezza di visione, fossero difficili da sopportare in una città che spesso preferisce il folklore alla verità, la cartolina al documento, l'applauso facile al rispetto profondo. Ora che Roberto De Simone non c’è più, resta il vuoto. Ma resta anche la sua lezione altissima, il suo esempio di artista totale. Un uomo che non si è mai piegato alle mode, ai compromessi, alle seduzioni effimere. Uno che ha trattato la cultura popolare non come una curiosità da esporre, ma come una materia sacra da studiare, proteggere, raccontare.

Ed è questo il vero testamento che lascia a Napoli: la memoria come impegno, la tradizione come ricerca, il passato come futuro. Lo onoreranno, sì. Lo ricorderanno, certo. Ma forse lui, da qualche parte, già lo sapeva: a Napoli, per essere davvero amati, bisogna prima morire. Il sindaco di Napoli e presidente della Fondazione teatro San Carlo ha disposto l'allestimento della camera ardente per Roberto De Simone presso il foyer del Massimo.

La camera ardente sarà aperta al pubblico oggi dalle ore 13 alle 19 (alle ore 13.30, il quartetto d'archi dei professori del San Carlo eseguira' il “Requiem” di Mozart in onore del maestro); domani dalle ore 10 alle 14. Per il giorno dei funerali, domani, il sindaco ha dichiarato il lutto cittadino.

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