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l'intervista
30 Maggio 2025 - 17:18
NAPOLI. In un momento storico in cui il Servizio Sanitario Nazionale è sottoposto a pressioni crescenti – tra aumento della domanda, carenza di risorse e allungamento delle liste d’attesa – si riaccende il dibattito sul ruolo del privato accreditato nella sanità pubblica. Un tema spesso affrontato in modo ideologico, tra timori di privatizzazione e richiami alla necessità di tutela del diritto universale alla salute. Ma cosa significa davvero “privato accreditato”? Qual è il suo ruolo reale all’interno del sistema? E in che modo può rappresentare una risorsa complementare, e non alternativa, al SSN?
Ne parliamo con il dottore Arturo Improta, fondatore di Medicina Futura, una delle realtà sanitarie accreditate più consolidate della Campania, da anni impegnata in percorsi diagnostici e terapeutici ad alta innovazione. Con una visione che coniuga efficienza organizzativa, tecnologia e responsabilità sociale, Medicina Futura si propone come esempio concreto di integrazione virtuosa tra pubblico e privato al servizio della salute dei cittadini.
Dottore Improta, qual è oggi il ruolo del privato accreditato nel nostro Servizio Sanitario Nazionale?
«È un ruolo fondamentale e, troppo spesso, frainteso. Le strutture accreditate non sono un’alternativa al SSN: ne sono parte integrante. Operano in convenzione, forniscono prestazioni a carico del sistema pubblico, rispondono a requisiti di qualità, sicurezza, appropriatezza e sono sottoposte a controlli periodici. In altre parole, pur essendo giuridicamente “private”, svolgono una funzione pubblica al pari delle strutture “statali”, contribuendo all’erogazione dei Livelli Essenziali di Assistenza».
Eppure l’opinione pubblica percepisce il privato come orientato al profitto e talvolta in conflitto con i valori del sistema pubblico. Come risponde a queste critiche?
«Le perplessità sono legittime, ma vanno contestualizzate. È vero che il privato ha una sua logica gestionale, ma nel caso del privato accreditato parliamo di strutture vincolate a regole pubbliche: erogano prestazioni rimborsate con tariffe stabilite dallo Stato, non applicano costi diretti al cittadino e agiscono sotto programmazione regionale. L’idea che il paziente venga “commercializzato” è fuorviante: l’accreditamento è uno strumento per garantire universalismo, non per negarlo. Lo dimostra una tendenza sempre più evidente che non ha costi aggiuntivi: sono gli stessi cittadini a scegliere, con consapevolezza, le strutture accreditate sul territorio, attratti dalla più semplice accessibilità, dalla presenza capillare, da una maggiore semplicità di rapporti, dagli orari più flessibilii. una sanità più vicina e personalizzata. È in questo spazio di integrazione virtuosa che prende forma la vera libertà di scelta».
Alcuni temono che l’esternalizzazione riduca la trasparenza e il controllo pubblico sulla sanità. Cosa risponde?
«Il controllo è garantito da un doppio livello: giuridico e operativo. Le strutture accreditate sono iscritte in registri regionali, devono rispettare standard strutturali e tecnologici, e sono soggette a verifiche continue da parte di ASL e Regioni. I dati delle prestazioni confluiscono nei sistemi informativi pubblici, contribuendo al monitoraggio della qualità e dell’equità. Non si tratta di un sistema parallelo, ma integrato. In pratica una prestazione ritenuta non appropriata non viene pagata. Un tale livello di controllo dell’appropriatezza della singola prestazione non opera nemmeno nel sistema “pubblico”».
E sul fronte economico? Alcuni vedono nel ricorso al privato un drenaggio di risorse pubbliche.
«È un falso problema. Le prestazioni accreditate sono pagate con la stessa tariffa applicata alla strutture pubbliche, spesso inferiore ai costi reali sostenuti dal pubblico. Inoltre, il privato accreditato contribuisce a ridurre le liste d’attesa e ad alleggerire la pressione sul sistema pubblico, liberando risorse per i settori più critici. Non è uno spreco, ma una razionalizzazione. Senza il privato accreditato, il SSN non riuscirebbe mai a garantire la stessa copertura ed efficacia».
Esiste anche un tema legato alla qualità del lavoro. È vero che il privato penalizza i professionisti sanitari con contratti più deboli?
«In alcuni casi, le forme contrattuali sono meno garantite rispetto al pubblico, è vero. Ma il privato offre anche spazi di crescita, ambienti più dinamici e percorsi professionali basati sul merito. Bisogna lavorare per garantire standard occupazionali ben tutelati anche nel privato, ma non va dimenticato che oggi rappresenta anche una possibilità concreta per trattenere in Italia medici e tecnici altamente specializzati».
Quali sono, allora, in sintesi i veri punti di forza del privato accreditato nel nostro sistema sanitario?
«Diversi. Innanzitutto l’accessibilità: strutture diffuse sul territorio, orari estesi, prenotazioni digitali, tempi più brevi. Poi l’efficienza organizzativa, che consente di offrire prestazioni ambulatoriali e diagnostiche in tempi rapidi. Il privato accreditato ha anche una maggiore capacità di innovare, investendo tempestivamente in nuove tecnologie. Infine, la coesistenza tra pubblico e accreditato crea un sistema di confronto che stimola miglioramento, efficienza e trasparenza».
Quindi possiamo dire che l’integrazione tra pubblico e privato non è una minaccia, ma una risorsa?
«Esattamente. Se regolata in modo trasparente, l’integrazione pubblico-privato è una risposta intelligente alle sfide del sistema sanitario. Non è “privatizzazione”, ma complementarietà funzionale. Il cittadino non sceglie tra pubblico e privato, ma ha la possibilità di accedere a un’offerta più ampia, più tempestiva, più vicina. Questo significa rafforzare il Servizio Sanitario Nazionale, non indebolirlo».
Tuttavia proprio in Campania questo modello, per via dei tetti di spesa annuali prefissati (i cosiddetti “tetti di budget”), è in grave sofferenza. Una volta raggiunto il tetto le strutture accreditate, non possono più erogare prestazioni a carico del SSN, obbligando i cittadini ad aspettare mesi nelle liste di attese del pubblico, rinunciare alla salute o pagarla privatamente.
«Si, è un esempio di grave iniquità. In sostanza un diritto alla cura sancito dalla Costituzione viene negato, si contraddicono i principi costituzionali di equità e universalismo. In Campania, dove la spesa sanitaria pro capite è tra le più basse d’Italia, questi limiti si raggiungono precocemente, soprattutto nelle branche ad alta domanda come radiologia, diagnostica per immagini, fisioterapia, cardiologia, laboratorio analisi. Il risultato è un collasso del diritto alla cura, in particolare per i cittadini più fragili, gli anziani e le persone con patologie croniche».
E questa situazione che riflessi ha per le strutture accreditate?
«Anche per i soggetti erogatori, i tetti di spesa rappresentano un limite alla programmazione e alla sostenibilità economica. Le strutture sono spesso costrette a: sospendere le agende SSN per lunghi periodi con gravi riflessi sui pazienti; licenziare o non assumere personale qualificato; sottoutilizzare costose apparecchiature ad elevata tecnologia».
Cosa dovrebbe fare la politica a livello regionale e nazionale per correggere questo sistema?
«A livello regionale è necessaria una revisione annuale dei tetti di spesa in base al reale fabbisogno territoriale assegnando una maggiore quantità di risorse al settore accreditato; basti pensare che su una spesa complessiva regionale di oltre 11 miliardi il privato accreditato pesa per circa 400 milioni, il 4% dell’intero budget regionale, ma produce prestazioni diagnostiche per il 70%. In questo modo si avrebbe un vantaggio economico per l’intero sistema sanitario regionale».
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