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Ucciso e poi sciolto nell’acido, i boss offrono un risarcimento

Innocente assassinato dai Polverino, colpo di scena nel processo di appello

Ucciso e poi sciolto nell’acido, i boss offrono un risarcimento

Nei riquadri Giulio Giaccio, vittima innocente della camorra, e gli imputati Salvatore Cammarota e Carlo Nappi

NAPOLI. L’iter processuale chiamato a rendere giustizia all’innocente Giulio Giaccio, ucciso dal clan Polverino per un maledetto scambio di persona e sciolto nell’acido, si arricchisce di un nuovo capitolo.

I presunti mandanti del delitto, già condannati a luglio dello scorso anno a trent’anni di carcere a testa, nell’udienza celebrata ieri mattina davanti alla Corte di assise di appello di Napoli hanno proposto ai parenti della vittima un’offerta migliorativa rispetto a quella avanzata in primo grado alle parti civili, assistite dall’avvocato Alessandro Motta.

La Fondazione Polis è rappresentata dal penalista Gianmario Siani. Il processo riprenderà il 19 luglio con la requisitoria del procuratore generale. Il processo di primo grado celebrato con la formula del rito abbreviato aveva visto alla sbarra Carlo Nappi e Salvatore Cammarota, esponenti apicali del clan Polverino accusati di essere stati i mandanti del delitto.

I due ras erano stati condannati a 30 anni di carcere a testa, mentre il collaboratore di giustizia Roberto Perrone aveva rimediato 10 anni. Per lo stesso omicidio sono imputati in un altro filone Salvatore Simioli, Raffaele D’Alterio e Luigi De Cristofaro, accusati di aver concorso alle fasi esecutive dell’omicidio.

Le indagini sull’atroce delitto erano arrivate a una svolta nell’agosto 2022, quando Cammarota e Nappi, già detenuti, ricevettero la nuova ordinanza di custodia cautelare. Entrambi sono ritenuti responsabili della morte violenta del 26enne Giulio Giaccio, scomparso da Pianura il 30 luglio 2000.

Sul movente è emerso che Cammarota voleva punire assolutamente tale “Salvatore” per la relazione sentimentale con la sorella, che evidentemente proprio non gli andava a genio. Gli inquirenti, attraverso le dichiarazioni di quattro pentiti e i dati acquisiti nel corso degli accertamenti di quell’epoca, hanno ricostruito lo scenario e la dinamica del terribile evento.

Giaccio fu costretto a salire in una Fiat “Uno” rossa mentre si trovava in compagnia di un amico che subito avvisò i familiari dell’operaio edile. Partirono le telefonate alle forze dell’ordine, ma nessuno sapeva niente e il giorno dopo al commissariato San Paolo il testimone presentò una denuncia.

Specificò però che non sarebbe stato in grado di riconoscere i due finti poliziotti che indossavano la pettorina, circostanza sicuramente vera, e ciò probabilmente gli salvò la vita perché alcuni giorni dopo il clan lo identificò e un emissario si informò sulle sue dichiarazioni alla polizia.

A raccontare ciò che sapevano ai pm antimafia sono stati Roberto Perrone, reo confesso, Biagio Di Lanno, Gaetano D’Ausilio e Giuseppe Simioli, ultimo a passare dalla parte dello Stato. Determinanti sono state però soprattutto le dichiarazioni del primo, che ha fornito elementi riscontrabili alla base del provvedimento restrittivo ed eseguito dagli investigatori.

A marzo ’24, grazie al neo pentito Giuseppe Ruggiero sono poi finiti in carcere D’Alterio, De Cristofaro “’o mellone” e Salvatore Simioli “’o sciacallo”.

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