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l'opinione
13 Agosto 2025 - 11:11
Ogni estate l’Italia si consuma sotto un cielo infuocato, una melodia di fiamme che diventa il canto triste di una nazione intrappolata in un loop di distruzione annunciata. Nei primi sette mesi del 2025, oltre 30900 ettari equivalenti a più di 43400 campi da calcio sono stati divorati dal fuoco, tre incendi al giorno, quasi 48 inghiottiti da una furia che non conosce pietà . Il Meridione e le isole più colpite, ma il Vesuvio, cuore candente e custode millenario, è diventato lo specchio più doloroso di questo disastro.
La pineta di Terzigno arsa, il monte offeso, il respiro di Napoli appesantito dalla cenere: un simbolo che soffoca, eppure ci chiama a risvegliare la nostra responsabilità. Non basta gridare contro il clima: le temperature,torridi e implacabili, accentuano la ferocia, ma non accendono le fiamme da sole. Serve chi accende, chi soffia, chi sfrutta il caos come strumento, per lucro, per speculazione, per pura indifferenza. E così, il Vesuvio non è solo un vulcano, ma un teatro in fiamme dell’abbandono politico. Piani di prevenzione appassiti, strategie incendiate dalla burocrazia, competenze divise e frammentate. È come se avessimo accettato il rituale dell’emergenza, mentre la prevenzione resta una musa silenziosa e mai celebrata. E la politica? Spegne le fiamme, ma non spegne il sistema che le genera.
Il nostro fallimento emerge netto: elicotteri e Canadair corrono in ritardo; volontari e vigili accorrono dove il disastro ha già scritto il suo nome. Il Vesuvio , testimone stoico e fragilissimo — brucia non solo per l’azione umana, ma per l’inerzia che consente tragedie perfette. Ci serve la poesia del cambiamento, non la retorica della reazione. Se anche la terra che ha nutrito Pompei, che ha protetto la fertilità della pianura, può arsi nel silenzio delle istituzioni, allora nulla è sacro. Combattiamo con cura il fuoco, ma amare il territorio significa anche proteggerlo prima che si lamenti.
Vanno rinati i corridoi verdi, ridisegnate le strategie, ravvivate le comunità che vivono i monti e le pendici, trasformandole in guardiani silenziosi. Serve una voce sensibile, una legislazione forte, investimenti reali, non applausi post-incendio. L’incendio estivo non è un destino, è una ferita aperta che possiamo chiudere solo con coraggio, cura, poesia d’azione. Il Vesuvio grida che non possiamo più tollerare l’inerzia come normalità. È tempo di trasformare le ceneri in germogli e la memoria in impegno. L’Italia merita un altro respiro, e il Vesuvio merita di bruciare di vita, non di dolore.
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