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l'arcivescovo di napoli
11 Ottobre 2025 - 10:39
Papa Leone XIV
Grazie, Papa Leone, grazie per averci confermato nella fede, per averci ripetuto quanto il Signore ogni giorno dice a ciascuno di noi e ad ogni creatura: «Ti ho amato» (Ap 3,9). Sì, ci ha amati. Da sempre, per sempre. E tu ce lo hai ricordato invitandoci a percorrere le strade polverose del mondo, chiedendoci di stare accanto ai poveri, agli ultimi, a chi abita le periferie del cuore. E lo hai fatto non con discorsi solenni, ma con parole che sanno di Vangelo e di terra, di carne ferita e di luce risorta.
Grazie per la tua Esortazione, che nell’incipit stesso fa risuonare la nota più antica e più nuova del Vangelo: quella dell’amore - eterno, fedele, indomabile - l’amore che non conosce mode né stagioni, perché sgorga dal cuore stesso di Dio. Un amore che continua a respirare tra le macerie delle guerre e delle disuguaglianze, e tra i germogli di giustizia e di pace che ostinatamente fioriscono nella storia. Un amore che ci invita, ancora una volta, a scommettere tutto sulla forza mite della carità, l’unica capace di ricostruire ciò che l’odio distrugge, l’unica che non smette mai di credere nell’uomo, perché in essa vi è il respiro stesso di Dio.
Il tuo non è un trattato, non è un proclama, ma una mano che indica la strada, una voce discreta che ci raggiunge oggi, dentro le nostre stanchezze, nelle nostre strade piene di polvere e di sogni, nel cuore di questo tempo e di questa terra dove pochi si spartiscono la ricchezza che il Signore ha donato a tutti. Ho gioito nel leggere le tue parole che non ordinano, ma abbracciano, che non pretendono ma ricordano, come se il Signore, attraverso la tua voce, tornasse a dire a ciascuno: “Ti ho amato, anche nella tua poca forza, anche nel tuo passo incerto, anche quando non sai più pronunciare il mio nome. E anche se non conti nulla per i potenti, conti per me. Perché per me non sei una statistica, un numero, una massa informe ma sei un volto, una storia, una figlia, un figlio amato da sempre e per sempre”. Tra le pieghe delle tue pagine ho sentito risuonare il cuore di una Chiesa che non teme la debolezza. Una Chiesa che sa che la potenza di Dio non si misura in grandezza, ma in vicinanza. E che per questo deve volgere lo sguardo sul luogo dove tutto comincia: la povertà, consapevole che, «il contatto con chi non ha potere e grandezza è un modo fondamentale di incontro con il Signore della storia» (n°5). Si, Dio sceglie i poveri. Non come trofeo, ma come casa. Non per compassione, ma per appartenenza. Lì, nel poco e nel fragile, Egli trova spazio per abitare, come acqua che cerca la fessura più bassa per scorrere e dare vita. E mentre il mondo corre verso l’alto, correndo con ambizione alla conquista del potere, la voce dello Spirito ci dice che il Signore scende, si abbassa, si contamina con la povertà delle sue creature. Perché la gloria di Dio non risiede in un trono lontano da raggiungere, ma in una ferita da accarezzare e curare. Grazie per la limpidezza con cui affermi che «non siamo nell’orizzonte della beneficenza, ma della Rivelazione» (n°5). È come dire: non basta fare il bene, bisogna farsi bene. Perché la carità non è un gesto, ma un volto. Non è ciò che offriamo, ma ciò che diventiamo. E qui mi è tornato in mente il dialogo tra Chiara e Francesco nel film Francesco di Liliana Cavani:
“Perché lo fai?”. “Perché ne hanno bisogno.” “Sì, ma se dai poco, lo fai per te”!
Sì, se diamo poco lo facciamo per noi. Se diamo qualcosa lo facciamo per sentirci meglio ma se condividiamo la vita e l’essenziale allora scriviamo pagine che profumano di grazia. Perché il dono non è vero finché non ci costa, finché non diventa condivisione di carne, e non semplice distribuzione di tempo o di risorse.
Santo Padre, ci confermi nella fede e nell’amore e ci ricordi che «sul volto ferito dei poveri troviamo impressa la sofferenza degli innocenti e, perciò, la stessa sofferenza del Cristo» (n°9).
E allora, guardando la storia, ci accorgiamo che quel volto non è lontano: è quello dei bambini di Gaza, che cercano un pezzo di cielo tra le macerie; delle madri dei soldati in Ucraina, che guardano le finestre con la speranza di un ritorno; dei giovani di Napoli, che resistono al fascino di un guadagno facile inventando il bene e costruendo strade nuove; dei missionari delle favelas, che ogni giorno si sporcano di umanità, piangendo con chi piange; delle famiglie che hanno perso un figlio, la cui fede sofferta diventa un filo sottile, ma indistruttibile; dei malati, che santificano il dolore con la pazienza; dei disabili, che ci insegnano che la vita non si misura in efficienza; dei detenuti, che nel buio attendono un perdono che sappia di futuro; dei migranti, che solcano il mare cercando una terra promessa che sappia di giustizia. In loro, Cristo non è un’idea ma è una ferita viva, un grido che ci consegna alla verità del Vangelo.
Leggendo la tua esortazione c’è un verbo che torna con insistenza, anche quando non lo pronunci: discendere. È la parola chiave di Dio. “Discendere” per liberare, come nel roveto ardente; “discendere” per servire, come nel cenacolo; “discendere” per salvare, come sulla croce.
Lo dici con semplicità: «Dio è amore misericordioso e il suo progetto d’amore è discendere e venire in mezzo a noi per liberarci» (16). E questa è la radice di ogni rivoluzione cristiana: un Dio che non conquista, ma condivide; che non possiede, ma si dona. Da questa discesa nasce la Chiesa dei poveri. Una Chiesa che non parla dall’alto, ma dal di dentro dell’umanità, servendo e accompagnando. Una Chiesa che non misura la fede in prestazioni, ma in ferite guarite. Quando scrivi che «la Chiesa, se vuole essere di Cristo, dev’essere Chiesa delle Beatitudini» (21), la consegni al suo volto più vero: quello che piange e spera, quello che ha fame di giustizia e sete di pace, quello che non teme di perdere consenso pur di restare fedele al Vangelo.
Grazie Papa Leone per averci ricordato che la dottrina sociale della Chiesa, non è un’aggiunta alla teologia, ma la sua carne, il suo corpo. Tu non lo dici con formule accademiche, ma con il tono di chi sa che la fede, se non diventa vita, muore d’asfissia. La giustizia, la pace, la solidarietà con gli ultimi, la dignità del lavoro, la custodia del creato non sono temi accessori: sono le conseguenze di chi decide di seguire Cristo. Perché seguire Cristo significa toccare le piaghe del mondo, prendere parte, non restare spettatori. Significa non parlare di Dio senza parlare dell’uomo. E quando ricordi che «la chiamata del Signore alla misericordia verso i poveri trova la sua pienezza nella parabola del giudizio finale» (n°28), metti il Vangelo davanti a noi come uno specchio: lì si vede se amiamo davvero, lì si misura la coerenza tra l’altare e la strada. Ho sentito, tra le tue righe, una Chiesa che vuole essere madre, che non ha paura di sporcarsi il grembo di misericordia. Una Chiesa che non si accontenta di “parlare dei poveri”, ma che sceglie di vivere con loro e di lasciarsi evangelizzare da loro. Una Chiesa che sa che ogni scelta pastorale, ogni dottrina, ogni gesto liturgico, se non conduce a chinarsi su un volto ferito, rischia di restare senza sapore e senza verità.
E in ultimo consentimi di dirti grazie, Papa Leone, perché la tua voce non si è posta come rottura, ma come continuità. In ogni parola della tua esortazione si sente la gratitudine verso chi ti ha preceduto, la riconoscenza verso Papa Francesco, la cui passione per la Chiesa povera e per i poveri continua a respirare nelle tue pagine. Hai saputo riprendere il suo cammino con discrezione, non per ripetere, non per copiare, ma per continuare a dare voce a ciò che è sempre vero. E così, mentre leggevo le tue parole, mi sembrava di ascoltare non solo l’eco viva di Papa Francesco, ma il soffio stesso del Risorto: la Sua Parola che non passa, la Sua Parola che non invecchia, la Sua Parola che continua a dirci con infinita dolcezza e ferma verità: «Io ti ho amato».
In quel soffio ho riconosciuto la voce di San Francesco, che ci insegna la libertà di chi si spoglia per amore; di Santa Chiara, che con la povertà fece della fiducia la sua ricchezza; di Sant’Agostino, che ci ricorda che solo l’amore sa dare pace all’inquietudine del cuore; di don Tonino Bello, che sognava una Chiesa con il grembiule e non con i paramenti del potere; e di Madre Teresa di Calcutta, che vide Cristo nei più piccoli e ne ascoltò il respiro tra le strade del mondo. Che questi santi della carità e profeti della tenerezza custodiscano il tuo cammino e accompagnino il nostro, perché la Chiesa resti povera e luminosa, madre dei poveri, sempre capace di riconoscere, in ogni volto incontrato lo sguardo del Crocifisso Risorto, che sussurra a tutti, senza distinzione: «Io ti ho amato».
*Arcivescovo di Napoli
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