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Casa di lavoro per la figlia del ras Caiazzo

La misura di sicurezza non detentiva è stata notificata a Maria Giovanna dalla polizia

Casa di lavoro per la figlia del ras Caiazzo

Nel riquadro Maria Giovanna Caiazzo

NAPOLI. Un fulmine a ciel sereno. Non se l’aspettava la visita della polizia Maria Giovanna Caiazzo detta “amore”, figlia di Antonio, storico boss del Vomero. Una settimana fa gli investigatori del commissariato Arenella hanno bussato alla porta della sua abitazione e da quel giorno la 46enne è rinchiusa nella Casa di lavoro di Trani.

Vi rimarrà due anni in base alla misura di sicurezza non detentiva inflittale dal giudice di Sorveglianza di Napoli. Si tratta di un provvedimento giudiziario che origina da una presunta pericolosità del destinatario o è complementare a una condanna definitiva. Maria Giovanna Caiazzo era tornata in libertà per fine pena a luglio 2024 dopo una lunga detenzione.

La notizia fece rapidamente il giro del quartiere Vomero, considerando che la donna fu oggetto di notevole attenzione mediatica negli anni in cui salì alla ribalta della cronaca. In un’intercettazione nel carcere di Carinola il padre faceva riferimento a lei come sua fiduciaria, tanto che un esponente del clan Lo Russo avrebbe dovuto mettersi d’accordo con la donna in relazione alla spartizione degli affari inerenti gli appalti del Cardarelli.

Maria Giovanni Caiazzo nel 2016 fu condannata a 14 anni di reclusione, pena inferiore a quanto richiesto dal pubblico ministero e poi ulteriormente ridotta nei successivi gradi di giudizio. Alla fine 8 anni dopo è tornata in libertà. Ovviamente la notizia ha suscitato scalpore negli ambienti malavitosi e in quelli delle forze dell’ordine, sempre interessati alle vicende che riguardano personaggi “di interesse investigativo”.

Al processo la posizione più grave apparve subito quella del boss Antonio Caiazzo, il quale, secondo l’impostazione accusatoria, aveva approfittato delle maglie larghe del sistema carcerario per coltivare i suoi affari anche se detenuto. Caiazzo, in particolare, era accusato di aver continuato a dirigere il clan benché ristretto in galera servendosi proprio della figlia, allora, 34enne, Maria Giovanna, nominata reggente in un panorama malavitoso in cui i leader delle cosche, salvo rarissime eccezioni, sono esponenti del sesso maschile.

E l’avrebbe fatto verso la fine 2011, quando non era ancora sottoposto al regime del carcere duro - dando così l’input per un’attività di estorsione verso i commercianti della zona del Vomero. Per gli inquirenti Maria Giovanna Caiazzo mantenne saldo il potere criminale, non limitandosi a fare da megafono del padre in cella. Grazie alle indagini della Squadra mobile, sarebbe emersa la sua possibile sfera di influenza: gestiva scooter e auto da affid

are ai presunti soci, ma anche schede telefoniche «dedicate», intestate a prestanome e buone per dialoghi camuffati. Un dato numerico: in un mese, furono intercettate 1380 tra sms e conversazioni, sempre con gli stessi interlocutori.

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