Speciale elezioni
la rinuncia alla vita
20 Novembre 2025 - 14:56
Il teologo monsignor Nicola Bux
Al cristiano non è dato di togliersi la vita o di aiutare alcuno a farlo. È un assunto chiaro. Altrimenti, nell'esempio di chi lo fa, e nel mare di elogi di chi commenta, si rischia di annegare o annacquare la compassione (partecipazione con passione) degli insegnamenti della Chiesa. Sono i concetti che monsignor Nicola Bux, teologo, ha espresso nell'intervista che il ROMA propone ai propri lettori cattolici che si scoprono ora "vacillanti" rispetto al profluvio di elogi indirizzati alle gemelle Alice ed Ellen Kessler per la scelta di troncare la propria vita insieme ricorrendo all'eutanasia-suicidio.
Erano malate? Erano sole? Di sicuro non erano accompagnate dalla Parola di Cristo. Se fossero state atee si capirebbe. Pare che abbiano scritto a un'amica: "Ci vediamo sopra le nuvole". Era quindi - forse solo romanticamente - convinte che "un dopo" esiste. "Il presente" hanno voluto gestirlo da sole. E se non tutti i media hanno voluto definire "suicidio" il modo in cui hanno dato fine alla loro vita, preferendo parlare di "eutanasia", forse una distinzione tra i due termini s' impone. Affinché non passi un diverso vocabolo per modificarne il significato in modo velato. Cioè, per non prestare anche ai cristiani una formula verbale positiva del gesto, che giustifichi e neghi quanto hanno ben chiaro nella propria morale: non è dato di togliersi la vita o di aiutare alcuno a farlo.
Tuttavia, la compassione per chi "non ce la fa" ad attendere con sofferenza eroica che tutto il corpo ceda alla morte e con l'ultimo respiro si chiuda il proprio cammino terreno rende controverso il pensiero cristiano. «Anche nella Chiesa è penetrato il "pensiero mondano", quello cioè diffuso nel mondo, quello alla moda, che afferma: "Ma sì, aiutiamo questi poveretti che non vogliono vivere più, facciamo una legge sul suicidio assistito" - riflette monsignor Nicola Bux - Le gemelle Kessler si sono fatte aiutare a uccidersi».
Anche i cattolici, rispetto alle certezze che nutrivano in passato, oggi dubitano su come porsi davanti alla sofferenza e alla morte.
«E ciò è responsabilità della Chiesa. Anche perché, per qualche decennio, i nostri pastori, pur confermando che la vita è un dono, non hanno per nulla più parlato della morte e della sofferenza. Anzi, quasi hanno acconsentito che pure le persone suicide avessero pari considerazione come tutte le altre, considerandole persone con qualche problema psichico, creando una convinzione diffusa per la quale, quando la vita non è più decente, facciamola finita. Questo è un esempio di pensiero di uomini della Chiesa a cui sono conseguenti convinzioni indulgenti da parte dei cattolici nei confronti del suicidio».
Monsignore, un uomo anziano chiedeva con semplicità: ora le anime delle gemelle Kessler, dove vanno?
«Questo lo lasciamo al giudizio di Dio, ovviamente. Noi non conosciamo lo stato d'animo della persona quando pensa, progetta o fa certe cose. Noi umani giudichiamo dall'apparenza, da quello che vediamo. Ma, secondo il giudizio morale obiettivo, il suicidio è uno dei peccati più gravi su cui Dio ha ammonito già nei comandamenti. La vita non è a nostra disposizione, sia dal suo inizio sia nella sua vita. L'uomo non può disporre della vita. Purtroppo, però, in Occidente ora ci troviamo in una cultura neopagana in cui gli uomini hanno perso la comprensione di questa verità. L'essere umano trascorre il suo tempo in una bolla, in cui pensa: finché sto bene in salute, finché sono efficiente, finché sono produttivo e tutto va bene, c'è la vita. Quando comincia la sofferenza, il dolore e altro, la vita non vale più la pena di essere vissuta».
Che cosa pensa del concetto eutanasia, diventato sinonimo di azione eroica, libera, dignitosa, persino espressione di amore, contrapposto al termine suicidio che ha sempre suscitato riprovazione e condanna?
«È un inganno, perché il termine eutanasia è termine greco che significa "dolce morte". Ma la morte non potrà mai essere dolce, in quanto estranea alla natura dell'uomo, anche se è entrata e diventata naturale. Dio ha creato l'uomo non per morire, ma, come dice San Paolo, la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo. D'istinto, noi non vogliamo morire. Il punto è che, siccome la vita, non di rado riserva il passaggio cruciale dell'anzianità, della vecchiaia, della debolezza, della sofferenza, e del dolore, è come se la cosiddetta "dolce morte" volesse fare chiudere gli occhi su questa verità. Perché noi dell'Occidente abbiamo creato il mito dell'uomo efficiente. Però, poi, paradossalmente, a livello di rivendicazioni dei diritti esistenziali, tutti vogliono che si tutelino quelli delle persone fragili. E allora mettiamoci d'accordo: o l'uomo ha una serie di possibilità che non lo vedono efficiente e quindi la società deve tutelarlo. Oppure va cancellato dalla società che - piuttosto che sostenerlo - lo aiuta a togliersi la vita».
Quanto incide la testimonianza delle gemelle Kessler nella visione dei cattolici? Il diffondersi anche tra loro di approvazione-compassione per quanto hanno fatto due donne di spettacolo molto amate rischia di tramutarsi in una sconfitta per il pensiero cristiano?
«Avendo perso l'orizzonte ultimo dell'eternità, che è Dio, l'Occidente riduce tutto all'orizzonte terreno. E quindi, chiaramente, due persone che sono vissute nel mondo dello spettacolo, e che hanno dimostrato la loro capacità caritativa con il dono dei loro averi in beneficenza, distraggono dal fatto che la prima carità è stata negata a loro stesse. Ama il prossimo come te stesso è il comandamento di Cristo. Una persona che rifiuta per sé la vita e poi dona i propri beni ad altri è una contraddizione in termini. Il popolo cristiano, non più opportunamente consapevole, evangelizzato, non riesce più a capire la sofferenza e, quindi, è chiaro che un episodio di questo genere suscita ammirazione».
Ma si può imporre la sofferenza oltre la sopportazione?
«Il cristiano si chiama cristiano perché vive a imitazione di Cristo, che non ha rifiutato la sua croce. Si vuole espellere dalla condizione umana la Croce. Ma, quando questa arriva, va accettata, contando anche su chi deve restare accanto con amore, carità e sulla possibilità di ricevere cure palliative. Non si possono chiudere gli occhi sulla realtà della vita, che è anche sofferenza. Per noi la Croce è il simbolo della solidarietà di Dio con l'uomo. La condizione umana non è scindibile dalla sofferenza. E questo è realismo».
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