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17 Novembre 2020 - 20:50
Una scuola classista e decisamente antipedagogica quella di un secolo fa. Un luogo in cui si perpetuavano le ingiustizie sociali, complici i maestri e l'istituzione nei suoi stessi fondamenti ideologici. Dove i poveri erano confinati agli ultimi banchi e, se non sapevano rispondere, si beccavano le “spalmate” con la riga sul palmo o sul dorso delle mani, a seconda della gravità del loro errore. La raccontava nel suo “Ritratto di maggio” con lucida indignazione, Domenico Rea, definito subito “l'anti-Cuore”, per il taglio ruvidamente realistico della narrazione con cui si contrapponeva alla visione idealizzata che Edmondo De Amicis aveva voluto dare dell’infanzia nell'Italia umbertina in quel romanzo che rimarrà ancora una lettura quasi obbligata per tutti i ragazzi, almeno fino agli anni Settanta. Adesso “Ritratto di maggio” è stato rieditato da Marotta & Cafiero, nella collana “gli scarrafoni”, che pubblica autori napoletani. Viaggiando sul filo della sua memoria di scugnizzo, Rea restituisce al lettore la freschezza dei pensieri di un bambino cresciuto per strada, convinto che il mondo sia tutto lì. Ma la scuola, anziché aprirgli orizzonti ampi e nuovi spazi mentali gli getta in faccia la crudezza della realtà: che il mondo è diviso in “gran signori” e “zotici” e che questa frattura è incolmabile. Una recherche partenopea, quella di Rea, in cui una vecchia foto di classe prende il posto della madeleine proustiana per mettere in moto i ricordi dal più prosaico mondo dei vicoli. Il racconto di un anno in prima elementare diventa il canto dolente di un bambino che pian piano dischiude i suoi occhi sulla ingiustizia del vivere. Lo scrittore procede con spietata delicatezza: è il punto di vista di un bambino che con stupore incredulo riferisce fatti che non sa spiegarsi, ma che il lettore adulto sa bene attribuire all’infamia di una società profondamente indifferente al richiamo della democrazia. E tanto forte è il contrasto tra le due percezioni, quella del bimbo che narra e dell’adulto che legge che questi non può che sentirsi graffiare l’anima. Siamo del resto nella temperie culturale neorealistica, in quegli anni Cinquanta che videro il cinema e la letteratura uniti dalla comune esigenza di restituire dignità agli ultimi, richiamando l’attenzione dell'opinione pubblica sulle oggettive condizioni di povertà, economica e culturale, in cui versava buona parte degli italiani nel dopoguerra. Sono gli anni in cui il boom economico deve ancora arrivare, quelli in cui la Repubblica muove timidamente i primi passi in un Paese in cui la mentalità comune e le istituzioni, in primis la scuola, sono ancora fortemente segnate dall’impronta del Ventennio fascista. Sono gli anni in cui anche Domenico Rea matura la propria vocazione letteraria pubblicando la raccolta di racconti “Gesù, fate luce» con cui giungerà nella cinquina finale dello Strega. “Ritratto di maggio”, uscito nel '56 documenta il suo primo approccio alla narrazione lunga, che potrà dirsi pienamente compiuto con “Una vampata di rossore” successivo di un paio d’anni e con “Ninfa plebea”, con cui nel 1992 si aggiudicherà lo Strega. Doppiamente interessante, quindi “Ritratto di maggio”: da un lato, in quanto accorata testimonianza in difesa di un’umanità desolata e senza prospettive di riscatto; dall’altro, in quanto tappa essenziale di una ricerca letteraria disincantata, volta alla rappresentazione di squarci di esistenze disperatamente minori.
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