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10 Febbraio 2021 - 15:20
NAPOLI. Il noir come specchio di una realtà nascosta, dolente, sincera. Il sangue che si fa evidenza e pulsa sotto pelle, che disegna la geografia di corpi vivi e di anime infuocate. Nessuno in Italia, riesce a descrivere il nostro mondo attraverso il suo lato oscuro come Maurizio de Giovanni che con “Il commissario Ricciardi” regala alla tv una potente contaminazione di generi - poliziesco, mystery e melò - per un racconto coinvolgente che indaga sul senso ultimo della vita e del dolore. Protagonista è Luigi Alfredo Ricciardi, trent’anni e commissario della Mobile nella Napoli degli Anni ’30 che sul piccolo schermo viene interpretato dal bravissimo Lino Guanciale.
Perché la scelta del quotidiano “Roma” nel romanzo e nella serie?
«Mi sembra il minimo quello di citare il giornale dalla più gloriosa storia entro i nostri confini. Una storia lunga e costellata di grandi nomi e di talentuose firme. Nei miei racconti amo parlare di Napoli e delle sue realtà, quelle radicate, quelle che raccontano la nostra identità culturale: il “Roma” è un elemento caratteristico di questa identità».
Del “Roma” si parla ancor prima nei suoi racconti: quale è la differenza con la parte dedicata in tv
«La trasposizione rispetto a questo argomento è esatto... puntuale. Quello che mi dispiace è che io parlavo del giornale “Roma” già nella trattazione del racconto, già nel romanzo. Come avviene in tantissime cose, per tantissimi aspetti di queste trasposizioni, alcuni elementi divengono noti quando questi arrivano sul piccolo schermo. Tanti, tanti elementi ed argomenti interessantissimi raggiungono il clamore e il grande pubblico, ahimé, solamente quando arrivano in tv. Questo è un aspetto che un po’ mi dispiace».
Ha pensato di fare anche nuova serie dedicata a Ricciardi oppure in tv porterà un altro suo romanzo?
«Si sta pensando alla seconda stagione, e un po’ come per “I bastardi di Pizzofalcone” anche lì tenterò di dare una nuova veste a questa storia che in tv ha portato tanta soddisfazione. Potrei immaginare una linea narrativa differente per il secondo Ricciardi. Insomma siamo al lavoro su diverse cose, su diversi personaggi, su diversi progetti».
Domenica con “Mina Settembre” e lunedì con “Il commissario Ricciardi”: Raiuno vince e convince con Maurizio de Giovanni: lo avrebbe mai immaginato?
«Devo dire che i personaggi - sia di “Mina Settembre” che de “Il commissario Ricciardi” - sono uomini e donne che da anni vengono apprezzati da milioni di lettori. Io le posso parlare dei miei lettori e di quanto questi personaggi sono piaciuti e sono stati seguiti. Per quanto riguarda il pubblico televisivo che ha seguito, invece, le serie sono sicuramente tanti altri aggiunti ai lettori he già esistevano. Riguardo alle caratteristiche del pubblico televisivo posso raccontare poco perché non è il mio mestiere, certamente entrambi i personaggi erano già molto amati dai miei lettori».
Quanto è difficile trasporre un libro in una storia per la tv e quanto lavoro di squadra c’è dietro?
«Quando scrive, un autore è infatti autonomo, del tutto autonomo: si mette in tuta davanti al computer, crea la sua storia, crea i suoi personaggi ed è per nulla interessato a quelle che sono le dinamiche di personaggi che potrebbe funzionare più o meno in tv. Quando, però, il testo deve essere tradotto per immagini, siano esse televisive, teatrali, subentrano altre professionalità. Lo scrittore lavora assieme al regista, al direttore del casting, al costumista, quindi è logico che le storie si allontanino dai libri: è giusto che sia così. Ogni storia per essere credibile sul piccolo schermo deve per forza in qualche modo allontanarsi da quello che un racconto fatto solamente di parole».
Perché piace così tanto il commissario Ricciardi?
«Il commissario Ricciardi era già molto amato dai lettori dei miei libri poi a questo - come ho detto prima - si è aggiunto il pubblico televisivo. La figura di questo commissario, è quella di un perfetto antieroe: ha moltissimi nodi e criticità. In primis c’è il suo dono che è anche la sua condanna. Riuscire a vedere le anime delle persone decedute in seguito a una morte violenta e percepirne il loro ultimo pensiero è una maledizione che teme di trasmettere al prossimo».
E del problema Covid legato allo spettacolo dal vivo cosa ne pensa?
«È una questione piuttosto critica. Al settore del tearro affiancherei quello della musica, delle sagre, delle fiere e di tutte quelle micro entità economiche che ormai sono ferme da un anno. Questa dello spettacolo, e di tutte le attività affini, dovrebbe essere uno dei nodi principali che le istituzioni dovrebbero tentare di sciogliere, proprio per la mole di lavoro che ha fermato e di conseguenza delle persone che ci stanno rimettendo in termini economici e di vita vissuta. Altro aspetto fondamentale riguarda tutta la parte dello svago al quale nessuno può più far riferimento, e che alla lunga porterà gravi ripercussioni psicologiche».
E la prosa in streaming?
«Beh, lo streaming non è teatro. E qualche altra cosa, sicuramente un modo per essere vicino al pubblico e in qualche modo per tentare di continuare a lavorare per le masse artistiche, per gli addetti ai lavori, per tutti coloro che, comunque, partecipano al grande lavoro che c’è dietro ad ogni spettacolo. La questione è questa, ma non sono certo io il primo a farlo presente: gli elementi del teatro fondamentali, gli unici che ancora lo contraddistinguono dalle altre forme di spettacolo, sono l’attore, il pubblico e lo spazio della rappresentazione. Quindi, prima di qualsiasi altra cosa, se viene a mancare una di queste caratteristiche non si può parlare di teatro vero e proprio, ma di soluzione momentanea che speriamo passi presto».
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