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13 Febbraio 2021 - 09:58
Che cosa resta della lunga resistenza che mise fine al Regno delle Due Sicilie
«Da questa Piazza di Gaeta dove difendo più che la mia corona l’indipendenza della patria comune, si alza la voce del vostro Sovrano per consolarvi nelle vostre miserie, per promettervi tempi più felici». Sono le parole usate da Francesco II di Borbone, ultimo re delle Due Sicilie, durante l’assedio di Gaeta, ultimo atto della Storia di un regno antico di sette secoli. Il re aveva lasciato la sua capitale poco prima dell’arrivo di Garibaldi, il 7 settembre del 1860. Perduta la battaglia del Volturno, la decisione fu quella di difendersi nella fortezza di Gaeta a partire dagli inizi di novembre. Circa cento giorni durò quell’assedio, tra migliaia di bombe e di proiettili scaricati dai piemontesi e centinaia di morti e di feriti tra i soldati e anche tra i civili. La sera del 13 febbraio, la decisione drammatica di lasciare l’ultimo pezzo del suo regno diventando, di fatto, il primo di milioni di emigranti meridionali insieme alla moglie, la bellissima Maria Sofia di Wittelsbach. In qualsiasi altro paese del mondo, la memoria di Gaeta sarebbe conservata non solo nei libri di storia, ma forse anche in quelli di epica. Altrove, si costruiscono miti e la stessa Italia ha costruito i suoi miti “fondativi” spesso su retorica e falsità: qui, invece, si tratta di storia e di una storia vera. Il ricordo di Gaeta è stato tenuto in vita da alcuni movimenti culturali “tradizionalisti”, “borbonici” o “neoborbonici” grazie a ricerche, pubblicazioni e celebrazioni, ogni anno sempre più affollate. E lo sarebbero state anche quest’anno senza l’emergenza in corso. Poche le tracce, ma importanti anche nella letteratura e non possiamo non pensare a quei commoventi versi del poeta napoletano Ferdinando Russo (“’O surdato ’e Gaeta”), accusato addirittura di “borbonismo” agli inizi del Novecento e al centro di un processo che dimostrò e dimostra come doveva essere difficile se non impossibile raccontare una Storia diversa da quella raccontata dalla storiografia ufficiale e spesso di impronta massonica (possiamo immaginare come furono scelte le classi dirigenti italiane in quegli anni). “Io m’arricordo tutta ’a funzione! Maria Sufia, ’o Rre, strille, lamiente, ’a famma, ’o tifo, ’e mbomme a battaglione, ’a forza ’e core ’e chilli reggimente, ’a lampa nnanz’ ’a vocca d’ ’o cannone, case cadute, cchiesie sgarrupate, e Francischiello ’nzieme cu ’e suldate!”. Tanti i caduti in quei giorni e tra essi anche molti ragazzi e tra essi anche Carlo Giordano, appena diciassettenne. Nessuno ha mai collocato una lapide per ricordarli e finora i progetti proposti alle autorità locali non sono stati realizzati. Anche per questo e per tutte le vittime dell’unificazione italiana da anni si celebra proprio il 13 febbraio il “giorno della memoria”. I patti per la resa della fortezza non furono neanche rispettati e in tanti, soldati e ufficiali, furono umiliati, perseguitati e anche deportati nelle fortezze/lager del Nord, solo perché non vollero giurare fedeltà al nuovo re sabaudo (“Uno Dio, uno Re!”, il loro grido). Non ci furono neanche ricompense economiche: la loro unica ricchezza fu una medaglia che gli consegnò il re. E risuonano spesso nei discorsi quelle parole: “onore e lealtà”. Ecco, allora, a cosa potrebbe servire Gaeta oggi. Se ci associamo l’idea dell’orgoglio, del senso di appartenenza, della fedeltà ai valori cristiani - i valori per il quali Francesco II ha di recente iniziato il suo percorso verso la beatificazione - abbiamo di fronte una sorta di mosaico che si ricompone. È anche questo quello che manca ai Napoletani e ai meridionali da oltre un secolo e mezzo. Gaeta può essere ancora il punto di riferimento di un viaggio che da diversi anni sempre più persone stanno portando avanti per ritrovare un riscatto atteso da troppo tempo.
*presidente Movimento Neoborbonico
(nella foto la copertina di “Le Monde Illustré” del 23 febbraio 1861)
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