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La Tavola delle Due Sicilie

La Tavola delle Due Sicilie

L’arte della gastronomia: come la storia e la cultura, attraverso i secoli, si riflettono nelle pietanze della nostra cucina

L’annessione del Regno delle Due Sicilie al Piemonte fu annunciata da Camillo Benso conte di Cavour in un telegramma all’ambasciatore piemontese a Parigi, con una metafora gastronomica: “i maccheroni sono cotti, e noi li mangeremo”. In realtà Cavour, cresciuto a risottino e polentina, dimostrava anche in campo gastronomico di conoscere poco la millenaria storia delle terre di cui aveva ordito la conquista. La cucina meridionale, infatti, pur essendo mondialmente conosciuta nelle sue creazioni più famose, come pasta, pizza, gelato, ha radici antichissime e una varietà infinità di piatti e preparazioni che nel corso dei secoli, si sono evolute mantenendo intatte le connotazioni tradizionali. Nel periodo borbonico, la gastronomia meridionale raggiunse il suo punto più alto. Quando al seguito della Regina Maria Carolina, per emulare i fasti gastronomici della Corte parigina e per sfuggire al fanatismo rivoluzionario, arrivarono a Corte cuochi dalla Francia - la cui cucina aveva avuto grande impulso dai cuochi e pasticcieri italiani di Caterina de’ Medici - essi, con i loro accorgimenti e le loro conoscenze, arricchirono il già vasto e composito patrimonio gastronomico napoletano, nobilitandone i piatti tradizionali. I francesi, chiamati a Napoli Monzù (da Monsieur), trasmisero ai colleghi napoletani nozioni che poi si tramandarono oralmente. Nelle cucine aristocratiche, i Monzù trasformarono i piatti popolari in portate fastose, la cui preparazione spesso prevedeva ore di lavoro e pazienza certosina. Nacquero Timballi sontuosi, come il Timballo Flammand e piatti creati in onore di casate nobiliari, come i maccheroni alla Campolattaro o alla Monteroduni. Anche il Sartù di riso nacque nelle cucine dei Monzù. Alimento usato per minestre e, comunque, poco amato, il riso diventa nel “Sur tout” (Sartù) un superbo involucro di una farcia ricca, barocca, che piacque tanto da far assurgere il Sartù a simbolo della cucina partenopea. Anche il “Gattò” (Gateau) di patate, nasce dalle sapienti mani dei Monzù. Certamente non, come si racconta, in occasione delle nozze dei Sovrani Ferdinando IV e Maria Carolina, perché esse avvennero prima della diffusione a Napoli delle patate (1798) e prima della presentazione dell’agronomo Antoine Parmentier ai reali di Francia di una serie di piatti a base di patate (1785). Alcuni Monzù aprirono a Napoli trattorie famose, come Pallino, ritrovo preferito di buongustai e cultori dell’arte gastronomica partenopea. In ogni quartiere, quindi, nobile o popolare che fosse, si ebbe così il trionfo di sapori, colori e profumi dei piatti della tradizione. Verdure e ortaggi erano “conciati” in ogni modo, tanto da farci  guadagnare il nomignolo di “mangiafoglie”. Della pasta si contavano 100 formati, prodotti nei pastifici del  Regno e di qui nacque il dispregiativo “mangiamaccaroni” per il popolo napoletano e l’appellativo “Tata Maccarone” per il Re Ferdinando IV. Poi c’erano i Timballi, la Lasagna, amata da re Francesco II, le pizze, le zuppe di verdura e carne (la celeberrima Minestra maritata) o di pesce, le carni, i fritti (antesignani del moderno street food), pesci, molluschi e crostacei freschissimi, e i dolci, spesso inventati nei silenziosi chiostri dei monasteri cittadini, come la Sfogliatella e la Zeppola. Sapori equilibrati, profumi ed aromi ricercati e sapienti che rendevano la tavola delle Due Sicilie un misto unico di cultura e tradizione. Altro che i maccheroni del conte di Cavour!

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