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14 Aprile 2022 - 14:27
Due terzi dei presuli del Sud rifiutarono il prestare giuramento a Vittorio Emanuele II di Savoia e subirono persecuzioni ed esilio
Negli ultimi anni si sono avvicendati studi di differente valore scientifico sulla fine del Regno delle due Sicilie e le successive reazioni anti-unitarie, che si protrassero ben oltre il 1861. Uno degli aspetti meno approfonditi, anche per la necessità di inquadramento nella più vasta conflittualità tra lo Stato unitario e la Santa Sede, è senz’altro lo studio della reazione cattolica nei territori meridionali. È utile ricordare che già con la legge del 25 agosto 1848 soppressiva della Compagnia di Gesù si era evidenziato il carattere anti-cattolico del liberalismo piemontese, accentuatosi con la complessa normativa anti-ecclesiastica approvata tra il 1848 e il 1855, contro la quale la Chiesa ingaggiò una lotta politica di vasta portata, non solo nell’interesse del clero piemontese, ma ben consapevole dell’attacco ai principi della legittimità e delle mire su Roma. Nell’allocuzione Cum saepe del 26 luglio 1855 Pio IX, denunciando le gravi sopraffazioni alle quali la Chiesa veniva sottoposta nel Regno di Sardegna, scomunicava tutti coloro che avevano proposto, approvato e sanzionato le leggi Siccardi sulla soppressione dei conventi e l’incameramento dei beni ecclesiastici votate nel maggio precedente. Nel 1859 le sollevazioni nell’Italia centrale e la conseguente occupazione delle Romagne da parte sabauda provocarono la dura reazione di Pio IX con l’enciclica Nullis certe del 19 gennaio 1860. Con il breve Cum Catholica Ecclesia del 26 marzo veniva fulminata la scomunica maggiore contro gli usurpatori dei diritti della Santa Sede. Anche in ragione della fedeltà alla Sede Apostolica circa due terzi dei vescovi meridionali ritennero incompatibile il giuramento di fedeltà a Vittorio Emanuele II e abbandonarono la loro diocesi. Emblematica è al proposito la vicenda del cardinale Sisto Riario Sforza. Pochi giorni prima dell’ingresso in città di Garibaldi, il 5 settembre 1860 l’arcivescovo di Napoli sconfessava le mene di un sedicente “comitato unitario ecclesiastico” tendente, fra l’altro, alla sollevazione della popolazione della capitale, che in realtà non ci fu. Il 22 settembre fu espulso da Napoli. Rifugiatosi prima a Genova e poi a Marsiglia, ritornò a Napoli il 30 novembre, per intercessione di padre Ludovico da Casoria e non prima di aver chiesto al luogotenente Luigi Carlo Farini garanzie per la piena ed intera libertà e indipendenza d’azione nell’esercizio del suo ministero. Promesse non onorate, tanto che il palazzo arcivescovile fu oggetto di diverse provocazioni da parte di facinorosi. Dopo aver indirizzato al nuovo luogotenente, Eugenio di Savoia, un solenne atto di protesta per la violazione delle libertà della Chiesa, congiuntamente a mons. Antonio Salomone, arcivescovo di Salerno, ed altri 19 vescovi meridionali, fu nuovamente espulso il 31 luglio 1861 e si rifugiò nello Stato pontificio dove proseguì dall’esilio la sua opera pastorale, organizzando una rete di pubblicazioni periodiche in contrasto alla stampa anticlericale e liberale, ponendo così il clero di Napoli all’avanguardia di questa forma di apostolato. Non dimenticò il suo clero e dispose che i nuovi ordinandi sacerdoti si recassero da lui a Roma. Ritornò a Napoli solo il 6 dicembre 1866. Nel novembre 1869 rifiutò di benedire il neonato erede al trono sabaudo - il futuro Vittorio Emanuele III - e di presenziare al Te Deum nella basilica di San Lorenzo.
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