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30 Agosto 2022 - 08:05
La storica dell’arte Angela Carola Perrotti: «È stato un modo tutto napoletano di rappresentare la realtà»
Studiare le Porcellane napoletane significa valorizzare una produzione artistica nella quale si sono fuse cultura e genialità. Una sapienza accumulata per generazioni, da quando re Carlo di Borbone, che aveva sposato Maria Amalia di Sassonia, importò da Meissen, nel 1743, una tecnica al tempo segreta. È l’opera della storica dell’Arte Angela Carola Perrotti, autorità assoluta in materia. «Sto ordinando i documenti della Real Fabbrica di Capodimonte ed anche di quella Ferdinandea. È un lavoro che mi appassiona - dice al ROMA - mettendo in fila le lettere degli operai, le notizie sul loro lavoro, è venuta fuori la mia “Storia delle Porcellane napoletane dell’Ottocento”. Sono un po’ indietro con Capodimonte perchè i documenti sono pochi. Devo aiutarmi con ipotesi e poi riscontrarle sugli oggetti».
C’è una specificità della porcellana napoletana?
«In tutti i periodi ci sono dei caratteri propri che differenziano la nostra produzione. Nel periodo di Carlo di Borbone manca la leziosità delle altre fabbriche, a partire da Meissen, la capostipite, una leziosità stile rococò. A Napoli tutto è meno formale e più sciolto. Poi c’è la scoperta della vita del popolo. A Meissen c’è la rappresentazione dei Cris de Paris, i venditori ambulanti di Parigi, ma sono stilizzati. Quelli di Capodimonte invece hanno i piedi nudi, i cesti tra le mani, come ancora oggi i pescatori di Mergellina. C’è un contatto con la realtà che è solo napoletano, una sensibilità diversa. E poi c’è la materia utilizzata a Napoli, la cosiddetta pasta tenera, senza caolino. Un impasto con molto vetro, più difficile da lavorare. La porcellana aveva un colore bianco latte, più caldo, mentre quella prodotta con il caolino è leggermente grigiastra».
Francesco Celebrano, che fu direttore della Real Fabbrica Ferdinandea, era pittore della Corte borbonica, ma modellava anche i pastori. La porcellana era considerata arte a tutti gli effetti?
«Sì. Oggi non ci rendiamo conto di come fosse considerata importante. All’epoca era qualcosa di misterioso. Gli artisti, però, erano più modesti. Un grande scultore dell’epoca di Carlo di Borbone, Giuseppe Gricci, disegnava perfino il manico di una tazza. Oggi, se si chiede ad un artista anche sconosciuto di disegnare una tazzina di caffè, si offende. La scissione tra arte ed artigianato non era avvenuta, e l’arte era un lavoro di équipe. Il famoso salottino in porcellana di Capodimonte - che Carlo di Borbone volle fare riprodurre a Madrid da Gricci - non fu firmato dall’autore perché era stato un lavoro collettivo».
Lei ha scritto che sia Carlo di Borbone che Ferdinando IV promuovevano un prodotto in porcellana “di alta qualità molto spesso superiore a quello della concorrenza europea” grazie a 50 anni di educazione di giovani ceramisti.
«Spesso questi artisti cominciavano a lavorare da ragazzini, ed erano figli di altri operai. Per un paio d’anni forse non venivano neanche pagati. Era come fare l’apprendistato in una vera scuola. E della scuola borbonica è rimasta per altri 50 anni una tradizione di artisti di alta qualità. Quelli che erano stati formati hanno creato la generazione successiva. Ancora nella prima metà dell’ 800 c’erano fantastici laboratori di miniaturisti e doratori, anche se la Real Fabbrica Ferdinandea non esisteva più e si importavano porcellane bianche che venivano poi decorate a Napoli».
Durante loccupazione francese nel 1807 Giuseppe Bonaparte chiuse la Real Fabbrica Ferdinandea e la vendette ad un gruppo di imprenditori guidati da Jean Poulard-Prad. Ciò segnò anche la fine della produzione affidata ai maestri artigiani ed il passaggio ad un’ organizzazione capitalistica del lavoro ?
«La fabbrica fallì nel giro di pochi anni. La corte francese si era impegnata a comprare porcellane per 15 mila ducati all’ anno, ma Napoleone Bonaparte impose di pagare alte quote di contribuzione. “Occorre che vi procuriate il denaro: ciò è la base di tutto” , scriveva al fratello Giuseppe il 31 maggio 1806. Dal 1813-14 i francesi non pagarono più e la fabbrica chiuse Al suo ritorno a Napoli nel 1815 Ferdinando IV non volle finanziare la fabbrica perché rifiutava quanto era stato voluto da Murat. Ferdinando IV sosteneva con le proprie rendite private la Real Fabbrica, che non era a carico dello Stato, I Borbone ci rimettevano soldi. La manifattura reale di porcellana era un motivo di prestigio, un segno di potenza rispetto alle altre Corti europee».
C’era un mercato estero per le porcellane?
«Sì. C’erano dei rappresentanti, si cercavano mercati anche a Costantinopoli. Erano iniziative politiche, ma non sappiamo come siano andate, perché i documenti della fabbrica non ci sono più. Sono rimasti documenti di appoggio, lettere tra il ministro e la Corte, il direttore della fabbrica, oppure sulla committenza di regali da mandare a Sovrani esteri».
Le istituzioni dovrebbero fare qualcosa per mantenere viva la grande tradizione della porcellana napoletana?
«Sì, ma è molto difficile. Ho collaborato a lungo con una fabbrica, gli ho fatto realizzare tra l’altro il servizio di piatti in porcellana scelto per la tavola del G7 del 1994. Ma manca l’organizzazione tra i produttori e poi c’è la concorrenza della Cina, la finta porcellana in resina sintetica. È una rincorsa ad un mercato sempre più basso».
Un marchio aiuterebbe la qualità?
«A Faenza hanno tentato, con il disciplinare sulla porcellana di qualità. A Napoli non sono mai riusciti ad approvarlo. Ci sono una cinquantina di fabbriche che firmano i prodotti Capodimonte, altre con la N e la Corona della Real Fabbrica Ferdinandea non solo a Napoli, anche in Germania. I marchi sono copiati dappertutto, non c’è nessuna protezione. Basta apportarvi una piccolissima modifica, per esempio aggiungere al marchio una A, iniziale del mio nome, e se ne acquisisce la proprietà».
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