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Porcellane dei Borbone: ecco come si spreca il grande patrimonio d’arte del nostro passato

Porcellane dei Borbone: ecco come si spreca il grande patrimonio d’arte del nostro passato

 I marchi di Capodimonte e della Real Fabbrica Ferdinandea imitati nel mondo. Nessuna difesa da parte delle istituzioni (nella foto, il famoso salottino di porcellana, 1757- Real Fabbrica di Capodimonte)

La Real Fabbrica di Capodimonte non era stata la prima ad avviare la produzione delle porcellane in Europa. Meissen aveva carpito nel 1710 i segreti della lavorazione di quella pasta dura e resistente, conosciuta già in Cina, e nel ’500 in Toscana, e Carlo di Borbone l’aveva importata nel 1743 grazie alla moglie, Maria Amalia di Sassonia. Ma a Napoli di proprio ci avevano messo una materia prima senza caolino, che rendeva la pasta più molle e di un colore bianco latte. Quando nel 1759 Carlo di Borbone si trasferì sul trono delle Spagne e portò con sé attrezzature e maestri artigiani per impiantare nel Parque del Buen Retiro la manifattura, il prodotto non era lo stesso, mancava il valore aggiunto del gusto napoletano. La manifattura di Doccia dei marchesi Ginori, in Toscana, aveva cominciato l’attività otto anni prima di Capodimonte, ma nell’800 imitava i prodotti della Real Fabbrica Ferdinandea e li marcava con la N e la Corona della fabbrica di Ferdinando IV, e in Germania facevano (e fanno) lo stesso. I marchi storici delle porcellane napoletane sono famosi nel mondo. Non avevamo inventato la porcellana, ma la lavoravamo con il nostro genio. Solo i politici, senza radici nella nostra cultura, non lo hanno capito. E così, da Rosa Russo Iervolino a Manfredi, passando per il decennio di De Magistris, mentre Faenza protegge con un disciplinare di qualità i suoi prodotti, Napoli dilapida la tradizione di generazioni di magnifici artisti.   

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