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19 Novembre 2022 - 10:32
La faccia oscura dell’unificazione. Decine di migliaia di soldati borbonici deportati nei campi di concentramento piemontesi
Durante e dopo la conquista del Sud, i piemontesi si trovarono ad affrontare il problema del destino dei prigionieri e successivamente dei soldati del disciolto Esercito borbonico. Se non vi furono grosse difficoltà per gli alti gradi della ufficialità, che trasbordarono senza incertezze nelle fila dell’Esercito italiano, conservando incarichi, stipendi e pensioni (fu il premio per i servigi resi all’invasore), diverso fu il caso della bassa ufficialità e della truppa. Ci si rese conto subito che i soldati napoletani, fatti prigionieri durante la Campagna del 1860-61 e quelli congedati dopo la guerra, non potevano essere restituiti alle loro case. Bisognava evitare il loro contatto con le popolazioni, rimaste in gran parte devote ai Borbone e scoraggiare l’adesione alla resistenza armata. Era poi necessario fiaccarne il morale, tenendoli lontanissimi dalla propria terra, in zone fredde a cui non erano abituati, per costringerli alla collaborazione. Si allestirono così i due campi di Fenestrelle e San Maurizio Canavese, vicino Torino. Ve ne furono anche altri, ma questi due rimasero i più importanti. Dopo una prima provvisoria sistemazione nelle carceri del napoletano, si diede luogo al trasferimento dei soldati borbonici al Nord. Alla fine di gennaio 1861 i soldati concentrati nei due campi erano 24mila. A settembre ammontavano a 32mila. I sottouficiali e i militari di truppa si rifiutarono in massa di passare nell’Esercito italiano, per cui si dette inizio ad una leva forzata e ad una commistione tra prigionia e leva vigilata. Nei campi rimasero coloro che rifiutavano l’assimilazione nel nuovo Esercito unitario e vi si aggiunsero i nuovi coscritti recalcitranti e pericolosi e i renitenti arrestati. Vennero sottoposti ad una sorta di rieducazione, tenuti senza armi in “rigida disciplina, finché si correggano e diventino idonei al servizio”. I campi di Fenestrelle e San Maurizio erano sorvegliati da battaglioni di bersaglieri, squadroni di cavalleria e batterie di cannoni. Disagi, stenti e patimenti sono descritti nelle fonti dell’epoca, e riportati nel mio “I lager dei Savoia” (Controcorrente). Durante il viaggio per il Nord i soldati meridionali furono percossi, derubati, ed esposti al ludibrio degli esagitati. Si verificò anche qualche caso di suicidio: il giornale piemontese L’Armonia nel settembre 1861 riferì che a Rimini diversi soldati, presi dalla disperazione, si annegarono in mare, tanto che le autorità dovettero porre guardie sulle barche per impedirlo. Nei campi furono tenuti laceri ed affamati, ricattati e costretti a condizioni di semi-schiavitù. Ma tutti preferirono languire in questo stato, rifiutando qualsiasi collaborazione, anzi essi dettero vita a ribellioni e ammutinamenti. “Un solo Dio! Un solo Re!” , era la loro consegna. Chi riuscì a fuggire andò a ingrossare i ranghi del “Brigantaggio”. Il generale piemontese Alfonso La Marmora visitò uno dei campi e rimase esterrefatto per le condizioni in cui vivevano i prigionieri, e per la loro fedeltà. Dopo la battaglia del Volturno circa 1.800 tra soldati e ufficiali, con il placet piemontese, si imbarcarono per l’America per arruolarsi nell’Esercito confederato del Sud, dove combatterono tra il 1861 e 1864. Verso la fine del 1860 le sacche politiche di resistenza davano ancora preoccupazioni al Governo unitario, tanto che il presidente del Consiglio, Luigi Menabrea, nel 1868 prese contatti con il Governo argentino per istituire in Patagonia una colonia penale dove deportare gli ufficiali, i soldati borbonici e i civili ancora prigionieri.
*autore de “I lager dei Savoia”
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