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La nostra lingua napoletana

La nostra lingua napoletana

Scrittori, autori di canzoni celebri, poeti l’hanno utilizzata nei secoli per le sua grande capacità espressiva

Spesso si oscilla tra il disprezzo di una cultura sempre e comunque subalterna al grido di “non è vero che quella napoletana è una lingua!” e l’eccesso di orgoglio, al grido di “la nostra è una lingua ed è riconosciuta da tutti gli enti del mondo!”. La verità, come al solito, è nel mezzo, ma vi confessiamo che noi saremo sempre dalla parte degli “orgogliosi” dopo oltre 160 anni di disprezzo, da parte della cultura ufficiale, verso tutto quello che era ed è napoletano a partire dalla Storia (borbonica e non), passando proprio per quella lingua che anche nelle nostre case spesso veniva e viene osteggiata (“non parlare così, è volgare”). La premessa è necessaria: il napoletano è una lingua. Lo è dal punto di vista istituzionale e legale, visto che è riconosciuta come tale dalla stessa Unesco, e come “lingua a rischio-estinzione”, ed è catalogata sempre come lingua (non come variante dell’italiano e neanche come dialetto, pur rispettando tutti gli splendidi dialetti locali) nell’Atlas of the World’s Languages in Danger, pubblicazione dell’Unesco uscita nel 1996, dove è censita con la sigla ISO 639-3. In entrambi i casi, tra l’altro, si pensa ad una lingua che comprende diverse aree del Sud Italia (Sicilia a parte). Detto questo, l’importanza della lingua napoletana non è in queste definizioni o nei riconoscimenti di enti internazionali, ma nella sua grande Storia e in una tradizione culturale trimillenaria che parte dalla Magna Grecia, affonda le sue radici nella Cristianità e diventa lingua, letteratura, musica, pittura, scultura o architettura, è in una identità che resta tra le più antiche e famose al mondo - nonostante i tentativi di cancellarla o ridimensionarla - e sopravvive anche alla fine di Napoli capitale e di un intero regno e alle mistificazioni dopo l’unità d’Italia. Del resto, poche lingue al mondo possono vantare origini greche e poi latine (con tante parole ancora in uso), storie di incroci e scambi culturali con altre nazioni europee (Spagna e Francia in testa), autori come Giambattista Basile (“padre” di Cenerentola) o Giulio Cesare Cortese oppure, in tempi più recenti, come Eduardo De Filippo, Totò, Massimo Troisi, o Salvatore Di Giacomo, Libero Bovio, Ferdinando Russo, solo per fare qualche nome legato alla canzone napoletana, fino agli esponenti più attuali di quella tradizione che, anche a dispetto di atlanti ed enti internazionali, risulta più che mai viva, vivace e preziosa per chi la conosce, la ama e la tramanda ogni giorno. A dispetto - questa volta sì - di istituzioni locali che nulla hanno fatto e fanno di concreto per salvaguardare e valorizzare a livello scolastico o magari anche turistico-museale questo vero e proprio patrimonio immateriale e prezioso costituito dalle nostre parole, la nostra grammatica e la nostra Storia letteraria antica di oltre sei secoli. Resta questa, allora, la nostra vera “missione”, convinti come eravamo e siamo che il futuro della nostra gente, passi e passerà per radici e orgoglio delle prossime generazioni. Sintesi di orgoglio e di cultura. Allora, ricordiamo le parole di un altro grande poeta, noto come Masillo Reppone (sua una famosa “Posillicheata” scritta tra Seicento e Settecento): “E po’ co sta lengua toscana avite frusciato lo tafanàrio [avete consumato il lato B] a miezo munno! Vale cchiù ’na parola Napoletana chiantuta che tutte li vocabole de la Crusca”.

*presidente del Movimento Neoborbonico

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