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18 Marzo 2023 - 20:51
Scrittori, autori di canzoni celebri, poeti l’hanno utilizzata nei secoli per le sua grande capacità espressiva
Spesso si oscilla tra il disprezzo di una cultura sempre e comunque subalterna al grido di “non è vero che quella napoletana è una lingua!” e l’eccesso di orgoglio, al grido di “la nostra è una lingua ed è riconosciuta da tutti gli enti del mondo!”. La verità, come al solito, è nel mezzo, ma vi confessiamo che noi saremo sempre dalla parte degli “orgogliosi” dopo oltre 160 anni di disprezzo, da parte della cultura ufficiale, verso tutto quello che era ed è napoletano a partire dalla Storia (borbonica e non), passando proprio per quella lingua che anche nelle nostre case spesso veniva e viene osteggiata (“non parlare così, è volgare”). La premessa è necessaria: il napoletano è una lingua. Lo è dal punto di vista istituzionale e legale, visto che è riconosciuta come tale dalla stessa Unesco, e come “lingua a rischio-estinzione”, ed è catalogata sempre come lingua (non come variante dell’italiano e neanche come dialetto, pur rispettando tutti gli splendidi dialetti locali) nell’Atlas of the World’s Languages in Danger, pubblicazione dell’Unesco uscita nel 1996, dove è censita con la sigla ISO 639-3. In entrambi i casi, tra l’altro, si pensa ad una lingua che comprende diverse aree del Sud Italia (Sicilia a parte). Detto questo, l’importanza della lingua napoletana non è in queste definizioni o nei riconoscimenti di enti internazionali, ma nella sua grande Storia e in una tradizione culturale trimillenaria che parte dalla Magna Grecia, affonda le sue radici nella Cristianità e diventa lingua, letteratura, musica, pittura, scultura o architettura, è in una identità che resta tra le più antiche e famose al mondo - nonostante i tentativi di cancellarla o ridimensionarla - e sopravvive anche alla fine di Napoli capitale e di un intero regno e alle mistificazioni dopo l’unità d’Italia. Del resto, poche lingue al mondo possono vantare origini greche e poi latine (con tante parole ancora in uso), storie di incroci e scambi culturali con altre nazioni europee (Spagna e Francia in testa), autori come Giambattista Basile (“padre” di Cenerentola) o Giulio Cesare Cortese oppure, in tempi più recenti, come Eduardo De Filippo, Totò, Massimo Troisi, o Salvatore Di Giacomo, Libero Bovio, Ferdinando Russo, solo per fare qualche nome legato alla canzone napoletana, fino agli esponenti più attuali di quella tradizione che, anche a dispetto di atlanti ed enti internazionali, risulta più che mai viva, vivace e preziosa per chi la conosce, la ama e la tramanda ogni giorno. A dispetto - questa volta sì - di istituzioni locali che nulla hanno fatto e fanno di concreto per salvaguardare e valorizzare a livello scolastico o magari anche turistico-museale questo vero e proprio patrimonio immateriale e prezioso costituito dalle nostre parole, la nostra grammatica e la nostra Storia letteraria antica di oltre sei secoli. Resta questa, allora, la nostra vera “missione”, convinti come eravamo e siamo che il futuro della nostra gente, passi e passerà per radici e orgoglio delle prossime generazioni. Sintesi di orgoglio e di cultura. Allora, ricordiamo le parole di un altro grande poeta, noto come Masillo Reppone (sua una famosa “Posillicheata” scritta tra Seicento e Settecento): “E po’ co sta lengua toscana avite frusciato lo tafanàrio [avete consumato il lato B] a miezo munno! Vale cchiù ’na parola Napoletana chiantuta che tutte li vocabole de la Crusca”.
*presidente del Movimento Neoborbonico
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