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Antonio De Rosa, scrivere per la scena

Antonio De Rosa, scrivere per la scena

Antonio De Rosa (nella foto) attore, scrittore, curatore di una collana editoriale di pregio si racconta partendo dal suo rapporto con Napoli.

La scrittura ha condizionato ed orientato la tua vita ma come hai capito che avevi questo dono?

«Ho sempre scritto, fin da bambino. Quando studiavo per attore, scrivevo biglietti d’amore che vendevo a duemila lire. Iniziata la carriera, non ho scritto più nulla preso da mesi interminabili di tournèe . E quando nel 2010 Loredana Piedimonte, iniziò a “molestare” la mia pigrizia, e la crisi amorosa scatenò quella che ho scoperto essere la mia benzina, cioè “la pucundrìa”, sono tornato a scrivere senza freno. Oggi la mia “molestia” positiva è rappresentata dall’incontro con Maria Verde, regista e sceneggiatrice che mi lancia continui “semi” di bellezza».

Quali sono i tuoi modelli letterari di riferimento?

«Sono Camus, Virginia Wolf, Pasolini, mi piace moltissimo la penna di Antonio Manzini; i padri del ‘900: Patroni Griffi, Ruccello, Santanelli, e i cosiddetti “Dèi”: Cechov, Shakspeare, Eduardo, Viviani, di Giacomo, per la loro superlativa poetica».

Napoli ispira la tua scrittura ci spieghi in che modo?

«Vivendola appieno. Sono tornato a vivere a Napoli dopo 35 anni, e mi sembra di essere a Berlino (una città a caso che non conosco): un estraneo nella sua città. Non conoscevo più nulla, più nessuno, ho dovuto ricominciare da capo. Di Napoli amo le viscere, le pietre… parto sempre da lì: da un palazzo del centro antico, dalle facce, dagli occhi, dalle mani… Faccio lunghissime passeggiate tra la gente, tra i vicoli, ascolto ogni voce, ogni suono, cosa basilare per me. Faccio su e giù in metropolitana. La mia scrittura è sempre qui da dove parte ogni cosa, per ogni dove».

Ti lasci ispirare dal bello inteso anche come opera d’arte?

«Assolutamente. Resto anche un’ora a guardare il Cristo Velato o la statua dello stesso autore; i Caravaggio di Capodimonte, Gemito, ma soprattutto l’arte della vita. Mi incanto ad osservare un modo di camminare, gesticolare, mi fisso sui tic. Un giorno per strada mi picchieranno. Un’opera d’arte per me è ogni volta un nuovo incanto».

Quale tua opera consideri come quella che ha rappresentato un punto di rottura?

«“Aglais” senza dubbio. La follia del trauma che è un testo di esame per gli studenti del corso di letteratura teatrale alla facoltà di lettere moderne dell’Università Federico II. I docenti del corso hanno avvicinato il testo ad un saggio di Umberto Eco del 1962».

L’ultima tua creatura è la collana editoriale dedicata al teatro contemporaneo, cosa contiene e come è nata l'idea?

«La ”Linea Rossa” è nata perché spesso giovani attori allievi mi chiedevano di testi introvabili, uno tra i tanti Ruccello. Una mattina, sempre in cerca di bellezza, conversando con Egidio Carbone, nacque questa idea: creare una collana di teatro contemporaneo dedicato ad autori “viventi” ed in particolare offrire la possibilità ad autori giovani meritevoli. Ne parlai con i miei editori, MeaEdizioni, che folli e coraggiosi più di me, sposarono l’idea».

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