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La pasta: dal Sud al mondo intero

La pasta: dal Sud al mondo intero

È stato un prodotto perfezionato nel IX secolo in Sicilia e nel Napoletano, fondamentale nella dieta mediterranea

Le origini si perdono nei meandri dell’antichità. Dalla Mesopotamia alla Cina, all’area abitata dagli etruschi della penisola italiana, ci sono tracce di conoscenza della pasta da parte delle popolazioni locali. Lo studioso siciliano Tindaro Gatani  (“La pasta, Storia origini ed evoluzione”) cita ritrovamenti di grano in Egitto risalenti a 4600 anni fa e statuette raffiguranti donne che facevano scorrere un rullo su lastroni di pietra. La prima testimonianza sulla pasta secca risale al IX secolo, ed è dello scrittore siriano Bar Alì, mentre nel 1154 il geografo arabo-siciliano Al Idrisi, autore di una “Carta del mondo” per conto di Ruggiero II il Normanno, parla delle fabbriche di pasta secca attive nelle pianure della località siciliana di Trabia, che producevano in quantità già industriale per l’epoca ed esportavano in diversi Paesi. Se l’invenzione della pasta è ancora oggetto di disputa tra gli studiosi, è certo che ad aver fatto apprezzare questo prodotto nel mondo è stato l’attuale Sud, dalla Sicilia a Napoli, come osserva lo studioso Giuseppe Di Massa (“Gragnano, la città della pasta. Storia di acqua, semola e felicità”). Nei primi anni del 1200 Federico II di Svevia mangiava nella Reggia di Palermo - riferisce uno dei suoi biografi - “maccheroni dal sugo dolce”, cioè con un condimento contenente zucchero, secondo il gusto del tempo. Nel Napoletano, Giovanni Ferrario I, signore di Gragnano ed esponente della Scuola Medica Salernitana, raccomandava in un trattato sulle febbri tifoidee, di alimentarsi con “vermicelli ben cotti”. I primi pastifici, ancora di dimensioni ridotte, a Gragnano, Torre Annunziata, Castellammare di Stabia, Amalfi, Minori e Maiori risalgono al 1500. A Napoli, nel 1579, era attiva una corporazione di vermicellari, alla quale seguì quella dei maccaronari. La pasta veniva lavorata con le mani, ma, alla fine del ’500 fu inventato il torchio - a Napoli chiamato ’U ’ngegno (il congegno) - e la gramola, usata nei pastifici per amalgamare l’impasto. La lavorazione degli impasti oltre i 10 chili impegnava le mani e i piedi dei lavoranti. Sopra l’impasto - scrive Di Massa - “era posto un sacco di iuta per evitare che il sudore dei piedi trasmigrasse nell’impasto”. Il futuro re Francesco I di Borbone incaricò nel 1823 il celebre ingegnere Cesare Spadaccini di realizzare una macchina che rendesse più igienico e rapido il ciclo produttivo. Il tecnico realizzò una macchina in bronzo, ancora azionata a mano, che servì da prototipo per macchine azionate meccanicamente. Il metodo tradizionale della trafilatura al bronzo (passaggio dell’impasto di semola di grano duro e acqua nella filiera, da cui fuoriesce nei diversi formati) era nato. È quello ancora usato per le paste di qualità prodotte dai pastifici del Sud. La pasta, dopo la lavorazione, veniva lasciata essiccare al sole per giorni nelle strade, sui marciapiedi. Un’altra svolta nella produzione avvenne nel 1919 con l’invenzione dell’ingegnere di Torre Annunziata Michele Cirillo di un metodo meccanico di essiccazione con grosse ventole collocate all’interno di celle. Si passò dai 9-10 giorni necessari all’essiccazione naturale della pasta a 3-4 giorni.

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