Cerca

Vincenzina De Mizio, 96 anni, è l'unica erede vivente della versione "cirignaiola" del tipico ballo tradizionale

L'ultima testimone della tarantella sannita

In questa intervista "zi' Vincenzina" racconta la sua vita e la passione per le feste, le danze e i canti tradizionali del suo paese, Montesarchio. E canta per noi alcune strofe antiche di cui probabilmente è l'ultima custode

vincenzina de mizio , 96 anni

vincenzina de mizio, 96 anni, ancora balla la "tarantella cirignaiola"

Vincenzina De Mizio ha 96 anni. Non sa né leggere né scrivere ma è forse l'ultima testimone di una tradizione culturale antichissima, strettamente legata alla terra in cui vive: Cirignano, minuscola frazione del Comune di Montesarchio ai piedi del monte Taburno, in Valle Caudina, cuore del Sannio. Vincenzina, infatti, è una ballerina di tarantella. Non la famosa tarantella napoletana ma una sua variante molto particolare, conosciuta come “tarantella cirignaiola”. È un ballo più dolce, ondeggiate e sinuoso, meno sincopato delle più famose tarantelle napoletane, cilentane e via dicendo. Si balla prevalentemente tenendo il dorso delle mani sui fianchi e compiendo dei movimenti che portano i ballerini a disegnare come un numero otto. Vincenzina, con i suoi 96 anni, la balla ancora. E oltre a ballare, canta quello che ricorda di antiche strofe di ritornelli locali.

Quella che segue non è propriamente un'intervista, ma piuttosto il frutto di diversi incontri con Vincenzina, in cui si è chiacchierato di tante cose.

«Mi chiamo De Mizio Vincenza. Sono del 1928. Mi sono sposata che avevo ventuno anni. Prima ero stata fidanzata sette anni. Poi sessant'anni di matrimonio. Lui solo con me e io solo con lui. Si chiamava Erminio Panella».

Si presenta così zia Vincenzina. E questa sintesi del suo rapporto lungo una vita con il marito defunto verrà ripetuta in maniera identica almeno una decina di volte nel corso dei nostri incontri.

Zia Vincenzina, in quella foto sulla parete sta in abiti tradizionali con un cesto sulla testa. Perché il cesto?

«Con i canestri in testa andavamo in processione al convento di Santa Maria delle Grazie, a Latonuovo. Portavamo i doni alla Madonna: tre “scanate” (forme di pane fatto in casa da due chili ciascuna, ndr) di pane che avevamo fatto noi, e in mezzo ci stavano maccaroni, caffè, pasta, zucchero... Sopra mettevamo un “mesale” per coprire tutto. Io dovevo andare avanti, guai se non mi facevano andare avanti. Quando arrivavamo sopra Santa Maria, qualcuno suonava la tarantella e io mi mettevo a ballare, con il cesto pieno di roba sulla testa. Quanti applausi che avevamo! La gente gridava “Viva Cirignano!”. Allora ero giovane, ero sposata ma ero giovane. Ma se devo ballare la tarantella, non credete, pure ora ballo lo stesso».

Dove avete imparato a ballare? Chi vi insegnava?

«Così. Dovunque si ballava, in mezzo a Cirignano, oppure anche in montagna. C'era uno di Bonea che suonava quegli organetti a bocca, sapeste come suonava bene. Adesso ci sono tanti strumenti, ma prima si suonava solo con questi organetti piccoli in bocca. C'era qualcuno che sapeva suonarla pure a Cirignano. C'era uno qui che lo chiamavano Michele “o brigante”, ora è morto. E quanti suoni che sapeva fare! A me la tarantella mi è sempre piaciuta da ballare. Dovunque la sentivo, correvo a ballare. Una volta c'era una festa con un palco in piazza, videro che io ballavo e mi fecero salire sul palco a ballare. Ora le gambe non mi reggono più tanto. Anche perché io ho sempre lavorato, tutta la vita, da quando ero bambina. Un altro strumento che si suonava erano le “castagnelle” (le nacchere), ma io non le sapevo suonare».

E le tammorre? I tamburelli?

«Le tammorre non si usavano tanto, non c'erano. Qualche volta qualcuno che le teneva le suonava, ma non è come adesso».



Voi siete proprio di qui, di Cirignano?

«Sono nata sopra Lato Vetere. Ma quando ero molto piccola i miei genitori si trasferirono qui, perché mia madre aveva una sorella sposata qui a Cirignano. Ora è morta. E così ci chiamarono anche a noi. Ma mia madre e mio padre, eravamo tutti di Lato Vetere. E così sono cresciuta qui. Avrò avuto cinque o sei anni quando siamo venuti. Qua mi sono sposata, Qua ho fatto i figli, quattro maschi e una femmina, e qua i miei figli si sono sposati tutti quanti. Mio marito invece era di Cirignano».

Come era chiamata la vostra famiglia qui a Cirignano?

«Il mio soprannome era “sergente”, perché così chiamavano mio padre, “Antonio 'o sergente”. Non sono mai andata a scuola. La mia scuola è stata la montagna. Non so né leggere né scrivere. Mai imparato. Però sapevo vedere i fatti miei. Quando la buonanima di mio marito consegnava il latte, oppure il tabacco, poi si metteva al tavolo con carta e penna per fare i conti di quanto aveva venduto e quanti soldi aveva preso. Ma io glieli facevo a mente i calcoli, e facevo prima di lui. “Erminio, viene tanto”. E lui rispondeva: “Ehhh, e questo è perché non sai leggere e scrivere. Allora se sapevi leggere e scrivere...”. Io la penna in mano non la sapevo tenere, ma con la mente nessuno mi ha mai fatto fesso».

Producevate il latte?

«Con mio marito avevamo le mucche, ogni mattina veniva uno a ritirare il latte, lo chiamavano “zi' Nicola 'o lattaro”, veniva da San Martino. Ne facevamo due bidoni da 55 litri ognuno ogni mattina. E altro ne davamo sfuso. Un giorno zi' Nicola portò un'altra persona, un mercante, scesero dalla macchina, questo portava un attrezzo, io non sapevo cosa fosse, ma serviva a vedere se il latte era buono o no. Zi' Nicola disse a quell'altro “qui non c'è niente da dire”. Perché molti mettevano nella latte la sciacquatura. Io la sciacquatura la buttavo nella terra per concimare. Quando se ne andarono, quell'altro fece segno a zì Nicola, come per dire che non c'era niente nel latte. Tutti venivano a prendere il latte da noi».

Ma a Cirignano c'era la scuola elementare, perché non siete andata a scuola?

«Cominciai a lavorare a 10-11 anni. Era morto mio padre e avevamo bisogno. Ma ero troppo giovane per poter andare a lavorare, il maresciallo della Forestale però capì che ne avevo bisogno e mi faceva andare. Quando venivano ispezioni il maresciallo mi avvisava e non andavo, mi venivano a chiamare le altre donne ma mia madre diceva che non mi sentivo bene, non era vero. In motagna si andava a piedi, lavoravamo e a fine giornata tornavamo sempre a piedi. E mica avevamo le scarpe che ci sono ora. Quando faceva freddo o c'era la neve, ci fasciavamo i piedi con delle pezze. Alle volte i piedi non me li sentivo più, lasciavamo tracce di sangue nella neve. Ma era dura. Io ero la prima figlia e dovevo lavorare, ma i miei fratelli e sorelle sono andati tutti a scuola. A mia madre dicevo di comprare i libri e i quaderni loro con quello che guadagnavo».

E che facevate in montagna?

«Lavoravo per la forestale, raccoglievamo la legna, pulivamo. Quando c'era la festa di Sant'Antonio a Montesarchio, noi tornavamo da lavorare in montagna e scendevamo in paese a piedi. Eravamo in gruppo, sei, otto di noi, e portavamo fasci di legna lunga sulla testa per fare la festa a Montesarchio, mettevamo carte colorate intrecciate sulle fascine di legna lunga. Erano così lunghe le fascine che portavamo in testa che due bambini si mettevano uno da un lato e uno dall'altro per non farle cadere. Le portavamo per i Santi. Adesso non ci stanno più feste così».

E alle feste si ballava la tarantella?

«Sì, certo. Ma a parte le feste, si ballava pure così, la sera, quando si stava in compagnia tra giovani, in mezzo alla piazzetta qui a Cirignano. Sempre all'aperto. No, non c'erano locali. Mio marito non ballava, però. Ma non era geloso. Lui lo sapeva da prima di sposarmi che mi piaceva ballare. Alle volte si ballava nella piazzetta della chiesa della Trinità, quando c'era la festa, prima della processione. Il 15 agosto ai Casali (Varoni, ndr), Alla festa del Carmine e a Sant'Antonio in piazza a Montesarchio. Qualche domenica si ballava sul piazzale del Castello, davanti alla torre. Poi si ballava anche in montagna. Quando facevamo pausa dal lavoro, per esempio dopo mangiato. Quando facevamo pausa per mangiare avevamo un'ora, portavamo un po' di pane, alle volte con i pomodori, alle volte anche senza niente, e allora ci mettevamo a ballare la tarantella. C'erano operai di Cirignano, di Montesarchio, di Bonea, di Tocco, uomini e donne. Qualcuno suonava e noi donne ballavamo».

Che tarantella ballavate?

«C'erano diversi tipi. A Cirignano si faceva una tarantella, a Montesarchio un'altra. C'era uno che si chiamava Antonio, suonava l'organetto. Ricordo che spesso andavamo a Porca Prena (località boschiva sul monte Taburno, ndr) a fare la legna. Io osservavo gli altri come ballavano e così imparavo, non c'era mica una scuola. Mi sono sempre buttata».

La musica come faceva? Vi ricordate la melodia?

«A parte suonare e ballare, si cantava anche. Ma se si ballava non si cantava, se si cantava non si ballava. A me piaceva anche cantare. Ne conoscevo tante, ora non me le ricordo molto. A mia madre anche piaceva ballare. La chiamavano sempre a ballare alle feste. La chiamavano “zi' Pasqualina 'a sergente”, per via del soprannome di mio padre, “'o sergente”. Anche quando andavamo a Montevergine si cantava, prima di entrare in chiesa e dopo quando si usciva. Una faceva così:

Ammore mio, ammore mio, ammore mio dammene 'nu po', ammore mio dammene 'nu po'/chello ca è senza sale, chello ca è senza sale, chello ca è senza sale è sapurito/ma si me l'hai a dare, ma si me l'hai a dare dammenne poco, ma si me l'hai a dare dammenne poco/quantu cchiù poco je, quantu cchiù poco je, quantu cchiù poco je e meglio sape/nun abballate loco, nun abballate loco, nun abballate loco ca si sfronna,/si sfronna o nun si sfronna basta che jamme/cumme ballano belli, cumme ballano belli sti guagliuni/si sfronna o nun si sfronna, basta che jamme”».

Ma come era questa tarantella di Cirignano, la “Cirignaiola”? Potevano ballarla mischiati?

«Sì, potevano ballarla uomini e donne oppure uomini con uomini, o donne con donne. Si ballava a coppie. Ma le coppie si possono anche scambiare, basta che non si interrompe la tarantella. C'erano varie tarantelle, ognuna si balla in una maniera diversa. C'erano anche le tarantelle a dispetto. Una canzone che cantavamo quando andavamo a piedi da Cirignano al convento di Santa Maria delle Grazie era questa:

Ammore mio, ammore mio, ammore mio quanto stai luntano, ammore mio quantu stai luntano/chi te lu face lu lietto, chi te lu face lu lietto, chi te lu face lu lietto la sera/e prega a Dio, e prega a Dio, e prega a Dio ca vene dimane, e prega a Dio ca vene dimane/che te lu vengo a fare, che te lu vengo a fare , che te lu vengo a fare cu la candela”».



Si facevano anche i canti a fronna 'e limone?

«Sì, a frona 'e limone. E chi si ricorda? La voce non è più la stessa:

Guaglione, cammina guaglione,/ca sta 'a festa 'a nammurata toja/e nun 'a fa je scuntenta 'a casa soja”.

E poi c'erano canzoni di quando si mieteva il grano, ma chi si ricorda come erano queste canzoni?, non mi ricordo le parole».



E i canti a dispetto?

«Eh, c'era chi diceva una strofa e chi rispondeva:

Statti zitta, statti zitta che nun sai cantare/ca si canto je, si canto je è 'a ruina toja.../arete 'a casa toja, arete 'a casa toja/nce sta nu' paparuolo, nce sta nu' puparuolo fradicio”».

Zia Vincenzina ha gli occhi chiari, vispi come quelli di una bambina. Dice che le fanno male le ginocchia e a volte anche i piedi. Però, quando la invitiamo a mostrarci la sua tarantella, fa un sorriso malizioso, si alza e comincia a volteggiare tra i mobili della cucina, i pugni sui fianchi, come se il tempo non fosse mai passato.

Commenta scrivi/Scopri i commenti

Condividi le tue opinioni su Il Roma

Caratteri rimanenti: 400

Logo Federazione Italiana Liberi Editori