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La principessa con la fotocamera

Claude d’Orléans discende da San Luigi e da re Sole ma con il suo obiettivo coglie la bellezza dei particolari più trascurati

La principessa con la fotocamera

Claude d’Orléans

«Io scopro dei dettagli che la gente non vede». Lo sguardo azzurro di Claude d’Orléans si posa sulle cose e ne fotografa i particolari. È un vedere poetico il suo, capace di scorgere bellezza nelle forme più impensate, come una pila di fette di formaggio o un pezzo di ghiaccio caduto sul cofano della sua auto.

Claude d’Orléans è una principessa, figlia del Duca di Parigi nonché discendente di San Luigi e di Re Sole, ma è anche una donna dinamica, pratica, curiosa ed entusiasta. Napoli le è cara perché qui nel 1974 al Circolo della stampa ha tenuto una delle prime mostre e qui, alla Biblioteca Nazionale, che si trova il lascito di sua nonna, Elena d’Orléans Aosta, che ha donato un importante archivio di fotografie, cimeli e documenti.

Vive in Toscana ma è una cittadina del mondo e a Napoli si sente a casa. Da un po’ di giorni è ospite della principessa Giulia Pignatelli di Strongoli nel suo bell’appartamento alla Riviera di Chiaia. L’occasione è ghiotta per una chiacchierata confidenziale.

La sua passione per la fotografia?

«Da piccola volevo essere fotoreporter. Guardavo le foto spettacolari su Geographic Magazine e sognavo di scattarle io un giorno. Mio padre, naturalmente, non volle. Anni dopo fu il mio fidanzato, Amedeo d’Aosta a regalarmi la mia prima macchina fotografica, una Kodak semiautomatica, molto facile da usare».

Come ha cominciato?

«Scattando foto per gli album di famiglia o di amici. Realizzavo dei mini album, ma mi sembravano noiosi, così vi inserivo dei particolari: un filo d’erba o il petalo d’un fiore: li regalavo come ricordo del loro soggiorno al Borro, la nostra tenuta in Toscana. Un giorno un amico pittore ha organizzato una mostra a Bologna con 30 foto mie. Così ho mescolato i ritratti dei miei figli e di altri bambini con i miei famosi dettagli. Ha avuto grande successo, poi da lì ho esposto qui a Napoli, Firenze, Monte Carlo, Parigi, Milano».

Cosa significa per lei la fotografia?

«È il mio modo di esprimermi. È la mia arte».

Si è formata con l’aiuto di un maestro?

«Sono un’autodidatta che lavora con l’intuito. È un po’ come suonare il piano a orecchio e poi riuscirci molto bene, capita».

Lei discende dai re di Francia, che significa vivere con questo peso sulle spalle?

«Non è un peso ma una responsabilità. Con l’educazione che abbiamo avuto potevamo fare quello che volevamo, ma ci avevano insegnato i limiti e noi sapevamo che non avremmo dovuto superarli».

Un ricordo della sua infanzia?

«Una volta, avrò avuto circa sette anni, e dovevo averne combinata veramente una grossissima, perché papà mi prese nel suo ufficio e mi disse: “Claude, il buon Dio ha voluto che tu nascessi principessa. Ricordati che questo è un vestito bianco che non devi sporcare”. È questo il senso di responsabilità nei confronti del nome che porto e di cui vado fiera. Ma intanto vivo la vita di tutti i giorni: vado al supermercato, guido, viaggio, seguo figli, nipoti e pronipoti».

Lei è stata moglie di Amedeo di Savoia. Un matrimonio d’amore?

«L’ho incontrato al matrimonio di re Juan Carlos. Eravamo tutti ospitati in un hotel ad Atene. Avevo 17 anni e indossavo una vestaglia che adoravo, ma era quella dei miei 14 anni e dunque mi andava piuttosto corta. Ero già pettinata e truccata quando mia madre mi disse di andare a cercare mia sorella perché toccava a lei farsi pettinare perché papà aveva fatto venire apposta Leon, il famoso parrucchiere francese. Allora a piedi nudi, in vestaglia, scendo e vedo mia sorella che chiacchiera con un bellissimo uomo, era Amedeo. Ci innamorammo follemente. Avevamo la stessa età e ci sposammo tre anni dopo. Purtroppo invece di crescere insieme, abbiamo seguito percorsi diversi. Ma quando ci si sposa molto giovani, capita».

Il bilancio della sua vita?

«Senz’altro in attivo. Se dovessi rivivere tutta la mia vita, rifarei tutto: il positivo e il negativo, le esperienze belle e quelle brutte. Ne vale la pena perché anche dal dolore poi nasce qualcosa».

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