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la riflessione

Pasolini e l'irrefrenabile (e incomprenso) vincolo di libertà

Nessuna celebrazione di un anniversario di morte

Pasolini e l'irrefrenabile (e incomprenso) vincolo di libertà

Il 2 novembre 1975 moriva all'idroscalo di Ostia — luogo che nel 2009 viveva ancora tra "incuria, vandalismo e recupero ambientale" — Pier Paolo Pasolini, il carsico Pasolini, l'anagrammatico Pasolini, il polifonico Pasolini, il batraciano Pasolini, il garrulo Pasolini. Secondo una tesi da qualcuno accreditata, il suicida Pasolini. Egli stesso, infatti, aveva scritto: "Per esprimermi compiutamente io devo morire. La mia morte dunque, come segno linguistico, come montaggio del film della mia vita". Non ultimo: il solitario, l'agnostico, il penitente Pasolini. Nessuna celebrazione di un anniversario di morte — il cinquantesimo per la precisione — avrebbe potuto essere più ridondante e tardiva, con quella naturale esplosione di "si sa" e "si dice", di elucubrazioni visionarie e rigorose analisi filologiche, di agiografie a buon mercato e ricercate scomposizioni dell'uomo, dello scrittore, del regista, del poeta e del critico (d'arte, di cultura in genere e di politica). Una marea montante di opinioni e certezze che ha sorpreso tutti, me compreso.

Spero che un po' di tanta invadenza e meticolosità resti nelle nostre menti, come nei nostri cuori, almeno per qualche giorno, prima di ritornare nel silenzio e nel buio. Spero che qualcuno abbia letto qualcosa della sua aspra e straordinaria produzione letteraria quando l'artista bolognese era ancora in vita. Spero che qualcun altro, anche in mancanza di meglio, lo abbia almeno fatto dopo. Parlare della sua vita e della sua opera resta tuttora un azzardo e ogni strada intrapresa per raccontarla spesso non è altro che un vicolo cieco.

Preferisco perciò affidarmi a quei pezzi di verità che sono le sue poesie, luoghi incontaminati dove domina l'inconsolabile senso di solitudine che, per quanto talvolta declini nel narcisismo e nel melodramma, rimane tale anche quando sprofonda nell'abisso di cui Pasolini era colmo come pochi, ben oltre l'orlo delle sue labbra, ben al di sopra del suo respiro. Di quell'uomo scabroso e scomodo così ci restano parole ancora ostinatamente incomprensibili, in quanto pronunciate nell'atto fisico e inesorabile — altro che metaforico! — dell'affogare. Proviamo a escludere dai significati della sua vastissima opera il cercatore di adolescenti di borgata. Proviamo a eludere il moralismo che pervade spesso il nostro pensiero mentre lo guardiamo con occhi freddi e disincantati. Al di là di una vuota commemorazione non troveremo nulla: troppo diverso dal senso comune, troppo raffinato per essere veramente nazional-popolare, troppo smisuratamente intellettuale per credere sinceramente alla sua intercessione con Dio. Ebbro di parole contorte e smisurate — come un alcolista in pieno delirium tremens — ha vagato per molte terre e molti cieli senza appartenere a nessuno di essi.

Era lui stesso la terra a cui provava disperatamente di approdare. Era lui il solo cielo che conoscesse senza incertezze né titubazioni, quel cielo dove — parafrasando il verso di una bellissima canzone di Ivano Fossati — è stato capace di "salire e non trovarci niente". Ce lo dicono proprio chi oggi lo celebra e chi invece (ancora) lo ammonisce. Pasolini sfugge a entrambi. Né "antesignano" né "profeta" (per usare le parole scelte qualche giorno fa da Michele Fumagallo su Il Manifesto), bensì ostaggio — finché ha potuto — di sé stesso e della sua irrefrenabile voglia di libertà. Quella libertà a cui tutti plaudono senza sapere esattamente cos'è. Nessun altro avrebbe potuto farlo con altrettanta tracimante immediatezza. Nessun altro ci sarebbe riuscito con pari rabbia, poesia e consapevolezza. Lui sì.

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