Il percorso carsico è un fenomeno idrogeologico, tipico di corsi d’acqua, fiumi, torrenti, che affiorano in superficie, si inabissano e poi riaffiorano. Metafora si può dire anche di alterne e cicliche sorti della vita. È quanto è accaduto al giornalista e scrittore Nicola Pugliese, autore nel 1977 di un originale e discusso antiromanzo “Malacqua”, oggi, dopo il lontano esordio da Einaudi, la successiva edizione di Tullio Pironti editore, nuovamente alla ribalta con l’ultima riedizione Bompiani. Che ha “consacrato” la grandezza di questo visionario, scomodo scrittore fuori da ogni “giro o girotondo” nel decennale della sua scomparsa avvenuta il 25 aprile 2012 ad Avella, centro dell’agro irpino-nolano. Giova aggiungere, a quarantacinque anni da quando Malacqua fu accolto e liquidato come “un caso letterario”, una formula, che diceva tutto e il contrario di tutto, per non voler dire subito che era un capolavoro, oggi accolto invece da un “diluvio” di consensi, lodi sperticate, giudizi esaltanti. Di fronte a una travolgente consacrazione è naturale, spontaneo chiedersi cosa avrebbe detto Pugliese per quanto meritato e non ottenuto a suo tempo. Avendone conosciuto molto bene il carattere, a mio avviso, avrebbe chiuso subito la pratica con la sua tagliente ironia: “D’ora in avanti di certo si venderà qualche copia in più; dovrò però anche rassegnarmi ad avere qualche amico in meno”. “Il successo dà alla testa a chi lo conquista ed è insopportabile a volte anche per chi vi assiste”. Sulla scia della lontana ironia, che riservò ai tiepidi giudizi dei critici o di presunti tali sulla prima uscita di Malacqua, di tutt’altra musica, rispetto a ciò che molti anni addietro la Ortese ne “Il mare non bagna Napoli” scrisse contro certe consorterie culturali, Nicola si limitò a confidare a Mimmo Carratelli una veniale sensazione: “Luigi Compagnone mi guardava con affetto, segno del suo apprezzamento, per il resto un bel silenzio. C’erano tanti scrittori napoletani, ma molti erano via e quelli rimasti erano dei solitari, simpaticamente folli, o tristi, un po’ egoisti, individualisti sicuramente, e forse un po’ invidiosi, chissà”. Ho conosciuto Nicola nel 1966: allora giovanissimo praticante giornalista nella redazione distaccata del “Roma” a Milano e io correttore di bozze precario nello stesso giornale. Il padre Antonio era una figura carismatica, vulcanica e impavida del giornalismo napoletano, autore di straordinarie canzoni, tra cui la struggente “Vurrìa…. turnà addu te, pe’ n’ora sola Napule mia”, musicata dal mitico Furio Rendine. Nicola, però, era un figlio d’arte, raccomandatosi da solo, avendo un talento indiscusso di “cronista brillante e di particolare estro narrativo”. Qualità che lo proiettarono subito in “terza pagina”, esclusiva di grandi personaggi, vi aveva collaborato nei primi anni della fondazione del “Roma”, nel 1862, anche Francesco De Sanctis, oltre un secolo dopo poteva ancora contare su firme prestigiose. Ogni qualvolta le bozze di uno dei pregevoli “elzeviri” di Pugliese giungevano nell’ufficio Correzione, ricordo che si sgomitava per poterle “leggere” prima degli altri. La mia amicizia si saldò nel 1975, quando divenni giornalista professionista. La sua piccola stanza della redazione Spettacoli al terzo piano poteva contenere sì o no una “consolle da dje”, ma era la più accogliente e invitante, per molti di noi, perché vi si discuteva di tutto: libri, donne, poker e dama. Fu lì una sera che nacque anche una sfida giornalistica garibaldina, per il rilancio del “Roma-pomeriggio”, un’edizione corsara, d’assalto, ideata e curata da Nicola, con l’apporto di molti di noi allora giovanissimi. Un duro impegno mattiniero, che lui esorcizzava con una scherzosa allerta: “È malacqua”. “Sì, Malacqua”, come la parola magica e emergenziale di un scrigno segreto di ben altri e più seri messaggi, scoperchiatosi totalmente nel titolo della sua omonima opera prima, pubblicata da Einaudi, con un testacoda tra Pugliese e Italo Calvino, che voleva smagrirne l’inizio ma non vi riuscì. Quel “capolavoro”, scritto in 45 giorni, è una monumentale testimonianza di come si possano condensare in poche pagine, parole semplici, riflessioni molto comuni le infinite logore liturgie, i fatalismi, le sterili ripetitività propositive, gli irriducibili immobilismi locali. Che un cronista, alle prese con le criticità storiche di una “città-labirinto”, sa raccontare in quattro giorni di pioggia torrenziale. Quattro giorni quattro, infiniti in una Napoli, dove saltano fogne, strade, viene giù tutto “da sempre” e, mentre da “sempre” piove ininterrottamente, in attesa che quel diluvio finisca, non cessa l’attesa snervante e di sollievo che accadano “da sempre” fatti misteriosi e impensabili. Non solo da “sempre” si attende un miracolo, che li possa finalmente risolvere mali antichi e nuovi di una città visionaria, imprevedibile, inafferrabile e sospesa. Una volta, mentre le prime analisi critiche farneticavano sul suo antiromanzo, in una di quelle sue tipiche esternazioni, dopo un silenzio che lo appagava anzi rasserenava, mi disse: “Napoli vive e sopravvive in un permanente guado tra incubazione e incubo. Incubazione di mali storici o eventi calamitosi e incubo nel senso che possono verificarsi e si verificano, in un’attesa densa e intensa del popolo tra suppliche celesti e terrestri, le prime da passeggere calmanti, le seconde da sempre inascoltate e di fatale immobilismo istituzionale”. Io me l’annotai, trovando in essa, la più calzante definizione di questa città eternamente sospesa. Senza mai impancarsi a maestro, meno che meno a moralista, con questo libro Pugliese è andato oltre i logori modelli narrativi, oleografici, ha stroncato retorica e enfasi, riscritto cose da sempre dette su Napoli in un modo così originale, franco. Che nessuno mai prima di lui aveva saputo come sapeva dirle lui. Tre anni dopo l’uscita di “Malacqua”, nel novembre ’80, mentre cominciavano a meglio delinearsi le qualità dell’opera e i meriti del suo autore, calò sul suo creativo impegno di giornalista, di un’apprezzata generazione di colleghi e di una eccellente maestranza, un devastante ciclone: la Flotta Lauro fu commissariata, il “potere”, il pentapartito espressione del pluralismo spartitorio, Dc in testa, mirava a spartirsela e ci riuscì. Per prima cosa si chiuse e si fece tacere il giornale “Roma”, di cui il Comandante Lauro era proprietario, il resto venne subito dopo con lo smembramento della Flotta. Si sospettò che i mandanti fossero i politici; dopo anni la Cassazione stabilì che era così. Nicola si lanciò in una serie di sfide, alla fine, mandò tutti a quel paese a modo suo. “Mi dimetto - disse - da una società di larve e cicisbei” e scomparve dai radar, naturalmente fumando la sua inseparabile proletaria sigaretta “Gauloises”. Nel 2003 il gran passo di lasciare Napoli per un borgo antico nella “Campania felix”, l’uomo di mare, che, da piccolo, aveva sognato di fare il marinaio, scelse Avella, nota per un anfiteatro-arena, dove si esercitavano e si affrontavano ì più forti gladiatori dell’antichità. Profonda e significativa la motivazione dettata dal piacere di avervi trovato tante piazze, segno inconfondibile e qualificante della democrazia e della libertà del luogo. Lasciò Napoli ma non fu un abbandono critico. Spesso andavo a trovarlo ad Avella e, tra tanti discorsi, di rigore era quello sul crescente, notevole interesse dei critici intorno al suo libro, impegnati in una sorta di “narcisistico certamen” su chi riuscisse a trovarvi le tracce più autorevoli “da Stefano D’Arrigo a Gabriel Garcia Màrquez”, da “Kafka a Joyce”. Lui ascoltava sorrideva e mi ribatté: “Le uniche tracce che io ricordi sono di whisky, di una bottiglia regalatami dal caro collega e amico Umberto Nardacchione, di cui conosciamo la proverbiale… prodigalità, di straordinario sostegno mentre scrivevo e pioveva tanto”. Ad Avella Pugliese e la moglie Mary, di trascinante affabilità e simpatia, un sorriso inconfondibile che le illuminava il volto, misero le radici per amore, un grande affetto familiare. A un tiro di schioppo nella vicina Mugnano del Cardinale abitava e vi abita tuttora l’amatissima figlia Alessandra con il marito Luciano Giannini, in poco tempo si moltiplicarono le amicizie e le impareggiabili cordialità dei borghi. Avella diventò l’armonia riconquistata, una vita ideale e un Caffè salotto per Nicola: il centralissimo Caffè Pasquino, trasformato un po’ nel suo personale, minuscolo Gambrinus da relax, da ricevimenti, di tutto. Non poteva esservi un posto più caloroso e degno, che prende nome da un avanzo marmoreo di una statua mozza del III secolo A.C. posta allo spigolo della base dell’edificio, tale e quale a quella, al cui collo, nella Roma del Papa Re, tra XV e XIX, si appendevano versi canzonatori contro ogni sorta potere, cioè dell’insolente Pasquino. Nicola trovò qui anche un prezioso amico: il proprietario del Caffè, Carmine Guerriero, che è stato per lui e resta, quello che Mario Jemenez rappresentò e fu per Pablo Neruda nel romanzo di Antonio Skarmeta, cioè il postino. Lo seguiva, ne fissava gli appuntamenti, glieli ricordava, salvo poi annullarli un minuto dopo, gli leggeva articoli più importanti, quando la vista aveva palesato le prime serie bizze, ne trascriveva pensieri e riflessioni. Nel suo bar accanto all’immagine di padre Pio figura anche una foto di Nicola, da album di famiglia: “Era il suo patrono laico”, del quale è contento di raccontare tutto. Ed è subito una piena: “Dal giorno in cui lui e la moglie vennero la prima volta ad Avella, da subito capii che erano persone particolari. Stavo chiudendo il locale per la pausa pranzo, glielo dissi ma lui rispose: “Voi potete andare tranquillamente in pausa pranzo, ricordatevi però che noi vi aspettiamo per una pausa tramezzino-cena”. “Ma chi siete?”, ribatté Carmine. La replica: “Non siamo turisti ma solo ambulanti in cerca di un posto tranquillo”. Queste divertenti risposte mi fecero cambiare idea, gli preparai dei panini con prosciutto una birra e da allora diventammo amici”. “Anche se il suo carattere non era facile, comunque si faceva volere bene” aggiunge e continua: “Era un burbero adorabile che faceva piacere incontrare; più di uno gli chiedeva addirittura consigli di varia natura, lui, nel darli, con molta cautela, una volta, mi disse: “Carmine, ricordate a questa brava gente, che io non sono né un mago né un chiromante”. Avevo in programma di tenere insieme con Nicola una mostra al Palazzo granducale di Avella, già accordatoci dal Comune, facemmo anche un sopralluogo per verificare la possibilità di utilizzare le scuderie al piano terra che danno direttamente sulla strada. Tutto era pronto, io avrei fatto il suo ritratto e lui avrebbe fatto il mio, da porre nella locandina della rassegna, ho ritrovato quel ritratto, dove si nota la severità dei suoi occhi neri, che diventavano feritoie quando si rabbuiava soprattutto con i falsi e gli sleali. Poi dovemmo rinunciarvi, in seguito all’aggravamento dei disturbi alla vista. Teneva tanto alla mostra, sarebbe stata la prima per lui. Trovava Gaughin, il suo primo amore, il più sincero e istintivo, di Kandinskj ammirava la geometrica esplosione di colori da suggestione cosmica, di Chagall quei voli angelici da naif. La pittura per lui era il tracciato più fedele dell’anima. Spesso ricordavamo che Picasso, prima di scomporre immagini, figure e arrivare dove arrivò, studiò a lungo anche gli affreschi di Pompei ma nessuno se ne accorse, o meglio lo prese in considerazione. Disegnò addirittura anche una serie di Pulcinella e Napoli né allora né dopo ha saputo riproporre le opere di quel lontano soggiorno risalente agli anni Venti. Nicola pareva svagato ma era molto rigoroso. Non ha mai firmato un manifesto per solidarietà forzose o di facciata, amava la libertà, detestava apparire. A suo parere solo la cultura, non tanto quella in cattedra, quasi sempre da casta, ma quella che è alimentata da esperienze di vita, insegnamenti liberi, poteva fermare declini e decadimenti della odierna società. Apprezzava la libertà incondizionata dei clochard, che “vivono di notte sotto la luna e dormono saggiamente di giorno, quando tutti si scannano per vivere”. “Ha molto amato la ospitale e generosa Avella - tiene a far sapere Carmine Guerriero - quel 25 aprile del 2012, di dieci anni fa, volle tornare a Napoli per un desiderio da tempo espresso che le sue ceneri fossero disperse nel mare di Santa Lucia: il mare del mito, nelle acque davanti allo scoglio di Megaride, la culla di Partenope, di Napoli, ma anche di “Santa Lucia luntana” di E. A. Mario. Avella non lo dimenticherà mai” conclude e ci informa: “Molto presto a Nicola sarà dedicata una strada, lungo il percorso che ogni giorno lo portava al Bar Pasquino, il suo personale Gambrinus, fischiettando, all’andata, e molto meno al ritorno”: “Uocchie c’arraggiunate, senza parlà? senza parlà?”.