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l'intervista

Pasquale Casillo, la cucina napoletana da "Ieri Oggi Domani"

Pasquale Casillo, la cucina napoletana da "Ieri Oggi Domani"

All'ombra del Vesuvio, in via Nazionale, la trattoria pizzeria "Ieri Oggi Domani" rappresenta uno di quei luoghi dove il tempo sembra sospendersi in un equilibrio perfetto tra memoria e innovazione. Varcare la soglia di questo tempio della napoletanità significa intraprendere un viaggio sensoriale attraverso secoli di tradizione culinaria, sapientemente custodita e reinventata dalle mani esperte di Pasquale Casillo. Patron visionario e custode appassionato del patrimonio gastronomico partenopeo, Casillo ha trasformato un locale, da tutti conosciuto negli anni passati con il nome “La Fila”, in un punto di riferimento per chi cerca l'autenticità in una città che della genuinità ha fatto il suo vessillo. In cucina, lo chef Antonio Castellano traduce questa filosofia in piatti che raccontano storie di mare e di terra, mentre il maestro pizzaiolo fa danzare impasti e condimenti in un forno che arde come il cuore pulsante del locale. In questa intervista esclusiva, Pasquale Casillo ci apre le porte del suo mondo fatto di profumi ancestrali, tecniche raffinate e quella passione viscerale che solo i napoletani sanno infondere nei loro piatti.

Lei è considerato un custode della tradizione culinaria napoletana. Come nasce la sua passione per la gastronomia e come si è sviluppato il progetto di "Ieri Oggi Domani"?

«La mia passione per la cucina napoletana è qualcosa che porto nel sangue. Sono cresciuto osservando mia nonna preparare ragù che cuocevano per ore, impastare a mano la pasta e selezionare personalmente ogni ingrediente al mercato. "Ieri Oggi Domani" è nato proprio da questo desiderio di preservare quella memoria gastronomica. Il nome stesso del locale, parafrasando il titolo del famoso film di De Sica con la Loren e Mastroianni, racconta la nostra filosofia: mantenere viva la tradizione di ieri, interpretarla con la sensibilità di oggi, guardando alle possibilità del domani. Abbiamo aperto nel 2016 in un momento in cui Napoli stava riscoprendo il valore delle sue radici culinarie, ma cercando anche una nuova identità contemporanea».

Nel suo locale lavora lo chef Antonio Castellano. Quale sinergia si è creata tra voi e come influenza la proposta gastronomica?

«Con Antonio è stato un incontro di anime affini. Lui, come chef executive, ha una formazione tecnica impeccabile, ma conserva quel rispetto quasi reverenziale per la materia prima che è essenziale nella cucina napoletana. La nostra sinergia si basa su un dialogo costante: io porto la visione, la conoscenza del territorio e dei fornitori, lui aggiunge creatività e tecnica. Non improvvisiamo mai: ogni piatto viene discusso, testato, perfezionato. Antonio ha quella rara capacità di innovare senza tradire, di sorprendere il palato mantenendo quel filo conduttore con la memoria gustativa napoletana».

La pizza è uno dei simboli di Napoli. Qual è il vostro approccio a questo piatto iconico?

«La pizza per noi napoletani non è semplicemente un cibo, è un rituale, un momento di convivialità, un'identità. Nel nostro locale abbiamo affidato questo patrimonio culturale alle mani esperte del nostro maestro pizzaiolo, che segue rigorosamente i canoni della tradizione per quanto riguarda l'impasto: lunga lievitazione naturale, minimo 24 ore, farine selezionate e una cottura rapidissima nel forno che raggiunge i 485 gradi. Dove ci permettiamo qualche libertà creativa è nelle guarnizioni, sempre nel rispetto della stagionalità ma non rinneghiamo mai le classiche: la Margherita resta la nostra pizza più richiesta e più amata».

Quali sono gli ingredienti che considera imprescindibili nella sua cucina e come li seleziona?

«Il pomodoro San Marzano DOP è sacro, così come la mozzarella di bufala campana. Il basilico deve essere fresco e profumato, l'olio extravergine rigorosamente del sud Italia. Ma il vero segreto è la relazione diretta con i produttori. Mi alzo all'alba tre volte a settimana per andare personalmente ai mercati o direttamente nelle aziende agricole dell'agro nocerino-sarnese. Conosco per nome i pescatori che ci riforniscono di pesce fresco dalla costiera da Pozzuoli. Questa relazione con chi produce è fondamentale: non compriamo semplicemente ingredienti, ma storie, tradizioni, saperi. E i nostri clienti lo percepiscono nel piatto».

Come si bilancia la tradizione con l'innovazione in un contesto gastronomico così fortemente identitario come quello napoletano?

«È una questione di rispetto e di conoscenza profonda. Per innovare bisogna prima conoscere perfettamente la tradizione, capirne le ragioni, i metodi, le tecniche. Solo allora si può pensare di evolverla. Con lo chef Antonio abbiamo un principio: ogni innovazione deve aggiungere valore, mai essere fine a se stessa. Un esempio è il nostro ragù: manteniamo la cottura lentissima di 6-8 ore come vuole la tradizione, ma utilizziamo tecniche moderne di controllo della temperatura che garantiscono una consistenza perfetta. Oppure la nostra pasta e patate con provola: l'abbiamo reinterpretata in chiave contemporanea aggiungendo anche provolone del Monaco e funghi porcini. I nostri clienti più tradizionalisti all'inizio erano scettici, oggi è uno dei piatti più richiesti».

Quale piatto della vostra cucina ritiene meglio rappresenti la filosofia del locale?

«Probabilmente la nostra Genovese tradizionale. È un piatto iconico napoletano che prepariamo seguendo rigorosamente la ricetta storica: cipolle di Montoro, quelle dolci e pregiate dell'avellinese, e un taglio di carne scelto con cura che cuoce lentamente per ore fino a sfaldarsi. Lo chef Castellano ha perfezionato questa preparazione portandola a un livello di eccellenza: le cipolle si sciolgono letteralmente creando una crema densa e avvolgente che abbraccia la pasta. È un piatto che richiede pazienza e dedizione, esattamente come la nostra filosofia culinaria. Rappresenta perfettamente il nostro approccio: rispetto assoluto per la tradizione, cura maniacale nella selezione degli ingredienti e quella pazienza che oggi sembra un lusso ma che è essenziale nella cucina napoletana autentica».

Come vede l'evoluzione della ristorazione napoletana negli ultimi anni e quale pensa sarà il suo futuro?

«Napoli sta vivendo una vera rinascita gastronomica. Fino a 15 anni fa la ristorazione napoletana era vista come folkloristica, talvolta raffazzonata. Oggi i nostri chef sono rispettati internazionalmente, i nostri prodotti sono ricercati, i nostri ristoranti si riempiono di turisti da tutto il mondo. Il futuro sarà sempre più nel dialogo tra tradizione e contemporaneità, nel recupero di antichi ingredienti e tecniche dimenticate, ma con una presentazione e un approccio moderni. La sfida sarà mantenere l'autenticità senza cadere nella trappola della cartolina turistica. Napoli non ha bisogno di raccontare una versione edulcorata di sé: la sua vera essenza, complessa e stratificata, è il suo valore più grande anche in cucina».

Molti chef oggi sono diventati personaggi mediatici. Qual è il suo rapporto con la visibilità e come bilancia l'aspetto comunicativo con il lavoro quotidiano nel ristorante?

La visibilità è un'arma a doppio taglio. Certamente aiuta a far conoscere il proprio lavoro, ma rischia di distogliere l'attenzione da ciò che realmente conta: il cibo e l'esperienza che offri ai tuoi ospiti. Io, lo chef Castellano e il nostro maestro pizzaiolo abbiamo scelto una strada di mezzo: siamo presenti sui social, abbiamo un ufficio stampa, partecipiamo a eventi selezionati, ma la nostra priorità resta il ristorante. Non troverete Antonio a fare show televisivi quando dovrebbe essere in cucina. La vera comunicazione per noi avviene nel piatto, nel racconto che facciamo ai nostri ospiti quando li accogliamo. Il passaparola rimane il nostro miglior alleato».

Napoli è una città dalle mille sfaccettature, con quartieri molto diversi tra loro. Come si riflette questa complessità nella vostra proposta gastronomica?

La nostra carta è un viaggio attraverso i diversi volti di Napoli. Abbiamo piatti che raccontano la Napoli marinara, come il nostro polpo verace, ma anche preparazioni che parlano dell'entroterra, come a Pasqua, la nostra minestra maritata rivisitata. Non dimentichiamo poi le influenze delle dominazioni che hanno attraversato la città: dalla Spagna alla Francia, fino all'influenza araba. Questa stratificazione storica è ciò che rende unica la cucina napoletana. Nel nostro menu c'è persino un omaggio al quartiere ebraico con una zuppa di ceci e baccalà che riprende antiche ricette della comunità che viveva intorno a Piazza Mercato. Volevamo che mangiare da noi fosse come fare un tour gastronomico della città, dei suoi mille volti e delle sue infinite storie».

Un'ultima domanda: se dovesse invitare un ospite internazionale a scoprire la vera anima di Napoli attraverso un pasto, quale percorso gastronomico gli proporrebbe?

«Inizierei con qualcosa di semplice ma rivelatore: un assaggio della pizza fritta preparata dal nostro maestro pizzaiolo, con ricotta e pepe, accompagnata da un calice di Greco di Tufo. Proseguirei con la nostra Genovese tradizionale con cipolle di Montoro, piatto emblematico della pazienza e della profondità del gusto napoletano. Come secondo, suggerirei il nostro pesce all'acqua pazza, creazione dello chef Castellano che racconta il rapporto viscerale tra Napoli e il mare. Chiuderei con la nostra pastiera rivisitata, servita con un bicchierino di limoncello fatto in casa. Ogni piatto sarebbe accompagnato da un racconto, perché a Napoli il cibo è sempre una narrazione. Ma soprattutto, inviterei questo ospite a guardarsi intorno, a osservare come i napoletani vivono il momento del pasto: con passione, con gioia, con quella capacità tutta partenopea di trasformare l'atto del mangiare in una celebrazione della vita. Questa è la vera anima di Napoli che vorrei trasmettere».

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