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L'INIZIATIVA
16 Giugno 2025 - 17:25
In un’epoca in cui la salute mentale è ancora troppo spesso sottovalutata o banalizzata, il giornalista e autore Gabriele Parpiglia sceglie di raccontare in prima persona il suo percorso attraverso ansia, attacchi di panico e dipendenza da farmaci. Lo fa con coraggio e lucidità nel suo nuovo libro “Sotto attacco di panico: la mia storia, il mio burnout, la mia ripartenza”. Quando nasce l’esigenza di scrivere questo libro? L’idea è nata durante il Covid. È stato, senza dubbio, il “parto” più lungo della mia vita: cinque anni. Inizialmente, il progetto era molto diverso, spinto da rabbia, frustrazione e dolore. Il Covid ci ha messi tutti davanti a una realtà che ci ha tolto equilibrio. Alcuni ne sono usciti più forti, altri – come me – sono scivolati nel collasso emotivo.
E poi?
Il panico è diventato un coinquilino. Scrivere è stato un modo per affrontarlo, ma all’inizio il libro non funzionava. Era troppo pieno di rabbia, mancava un centro. L’idea originale era di raccontare episodi di vita associandoli a farmaci e reazioni emotive. Ma non c’era equilibrio. La casa editrice me lo disse chiaramente: "Così non si può pubblicare". Avevano ragione.
Quindi com’è cambiato il libro?
È diventato un racconto centrato sulla salute mentale. Non solo il mio percorso, ma anche un modo per tendere la mano a chi non ha i mezzi economici, né la forza, per dire “sto male”. A chi si sente rispondere da un pronto soccorso “beva acqua e zucchero” davanti a un attacco di panico. A chi viene confuso da influencer che banalizzano disturbi seri sui social.
Hai fatto anche una critica forte a Fedez…
Non ho nulla di personale. Ma la salute mentale non può diventare un contenuto. Se sei davvero in crisi, non fai live, non sali su un palco. Ti chiudi in casa, al buio. Chi ci è passato lo sa.
E sulla politica?
Dovrebbe supportare davvero il settore della salute mentale: sostenere gli specialisti, valorizzarli economicamente e rendere le cure accessibili. Io ho potuto permettermi tre anni e mezzo di terapia, ma non tutti possono. E questo è inaccettabile.
Cambieresti qualcosa del tuo lavoro da giornalista?
Sì. Non rifarei tutto. In particolare, una notizia su una gravidanza pubblicata troppo presto. Avevo l’informazione, ma non era il momento. Se potessi tornare indietro, forse la gestirei diversamente. Ora ho la mia newsletter, la radio, i libri. Racconto ancora storie, ma con un’altra consapevolezza.
Parliamo di cinema e serie TV. Sei un grande appassionato. Quando riesci a guardarli?
Di notte. Non dormo molto. Guardo film, li studio. Ho una cartella Instagram con oltre 200 titoli. Per me i film sono fonte di ispirazione. Non seguo i consigli da TikTok: leggo, mi informo, scelgo con cura.
Ci dai qualche consiglio?
Nel libro ho inserito le “10 serie, 10 film e 10 canzoni” con cui l’ho scritto. Li consiglio tutti. Sono profondamente legati al mio vissuto. Un film che ho abbandonato? The Jungle, con Daniel Radcliffe. Una copia confusa tra The Beach, Cast Away e Trainspotting. Una serie mollata a metà? The Siren. Sta spopolando, ma per chi fa il mio lavoro è un déjà-vu. Popcorn bruciato.
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