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l'analisi
30 Giugno 2025 - 11:09
Il mondo, è indubbio, sta gradualmente assumendo un volto alquanto più cattivo, aggressivo, indisponibile al confronto ed al dialogo, alla composizione controllata dei conflitti. Ovviamente, parlo di quel mondo che – definendosi civile ed occidentale – era andato dandosi regole sempre più puntuali per provarsi a prevenire lo scontro – le guerre sanguinose e criminali – che peraltro da sempre ne hanno costellato la storia: è stato calcolato che negli ultimi 3500 anni, soltanto un 7-8% di essi hanno visto la terra in pace. Dunque le armi costituiscono un inevitabile compagno dell’umana condizione. Epperò, quel che va assomandosi in questi ultimi tempi costituisce un segnale di non poco momento: vero che non è sul ‘momento’ che s’esprimono valutazioni durature, ma la storia è fatta anche di questi: di momenti – fasi, se si vuole – che si succedono l’un l’altro,lasciando indelebili i segni del proprio passaggio.
Vladimir Putin ha dato un esempio di straordinaria portata: egli ha avviato quella che nel diritto internazionale si definisce ‘guerra preventiva’ e che dalla Carta di San Francisco del 1945 in poi è stata considerata la più illegittima delle guerre, quando non dettata da evidenti ragioni di legittima difesa, riscontrate da organismi terzi, in particolare dalla stessa Onu. E nel caso dell’Ucraina, quella guerra preventiva che il presidente della Federazione russa battezzò operazione militare speciale, forse anche per sfuggire all’illiceità madornale della sua decisione, quella guerra è stata avviata proprio da chi – uno dei cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza – avrebbe dovuto star lì ad impedire che fenomeni come questi protessero mai più verificarsi. E per di più, senza si dessero evidenze di rischi immediati che giustificassero la legittima difesa preventiva.
Ovviamente, nel diritto internazionale i precedenti fanno rapida scuola: e quel trattamento che l’autocrate russo ha riservato alla nazione ucraina, Israele – che ha aperto contemporaneamente cinque teatri di guerra – ha ritenuto di poterlo riservare alla nazione iraniana. Sulla scorta di assunti del tutto indimostrati, quanto meno non esibiti in alcun consesso internazionale, lo Stato sionista ha creduto di poter avviare un bombardamento del territorio persiano, nell’unilaterale assunto che il regime komeinista fosse sul punto di completare il proprio programma nucleare: insomma, d’essere lì lì per disporre d’ordigni atomici. Un assunto, per vero, che Tel Aviv ha affermato negli anni e da tempo con le medesime perentorietà, senza che mai alcuna prova sia mai stata fornita, peraltro in ciò imitando i propri mentori americani, che almeno si presero l’incomodo nel 2003 d’inscenare una rappresentazione ad usum innanzi all’assemblea delle nazioni Unite, esibendo la storica fialetta d’antrace. Ma, quel che è ancor più grave è che nella guerra israeliana a tal punto illecitamente avviata, son intervenuti decisivamente gli Stati Uniti d’America, che per nulla c’entravano.
In altri termini, una guerra preventiva d’Israele, sostenuta dalla più grande potenza economica e militare del mondo – anch’essa influentissimo membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu – che nemmeno s’è presa cura di dichiararla. È chiaro che in un tale contesto sono saltate tutte le pur non stringentissime regole che il diritto internazionale del Novecento aveva cercato faticosamente di darsi per infrenare l’incontenibile aggressività umana, essa sì fonte di tutte le più significative evoluzioni del mondo. E se la cosa la si volesse vedere con un minimo d’atteggiamento positivo – ma ce ne vuole d’ottimismo per farlo – dovrebbe almeno dirsi che, a dispetto di tutte le affermazioni del presidente Trump circa il disimpegno degli Statesdalla lor funzione di guardiani dell’ordine mondiale, questo compito essi non possono e non potranno, almeno sinché gli equilibri globali son questi, dismetterlo effettivamente.
Viviamo tempi feroci, in cui ogni forma di mediazione va assottigliandosi. Questo vale nei rapporti tra gli stati, dove la mediazione per eccellenza – la diplomazia – ha evidentemente ceduto il passo alla forza delle armi, che risolutivamente creano la situazione di fatto, cioè a dire quello che la forza bruta riesce a determinare. Ma vale anche all’interno della vita degli stati, dove l’intolleranza e l’indisponibilità a comprendere le ragioni dell’altro si manifesta in forme evidenti e molteplici. Chiaramente, nei confronti dell’estraneo, del migrante, di chi viene da realtà diverse dalle nostre, immediatamente ascritto alla categoria politica del ‘nemico’. Ma più generalmente, nell’inasprimento generalizzato di forme repressive e sanzionatrici, in luogo di articolazioni della risposta dello Stato, pur esse tendenti a mantenere ordine, ma in modo progressivo, educativo, integrativo. Una tendenza che ovviamente sviluppa più tensioni di quante non ne sciolga.
Di sabato, è la vicenda veramente straordinaria del pride di Budapest, quella dell’orgoglio Lgbtqia+, che ha attratto nella capitale magiara centinaia di migliaia di persone per protestare contro la repressione di forme di libertà che dovrebbero dirsi acquisizioni ormai scontate nell’attuale livello di civiltà europea. Ma evidentemente non è così, ed è altro segno dei tempi. Si sa che i fenomeni sociali sono altamente contaminanti ed interrelati, e quando s’avviano certi percorsi diventa estremamente difficile interromperli. L’attuale è congiuntura d’intolleranza, del farsi ragione con le proprie mani, della prevalenza della forza bruta: chi più può, maggiori spazi conquista e non intende ascoltare ragioni: autentico inselvatichimento. Tutto ciò, non c’è che dire, costituisce un grave regresso rispetto a certi risultati (apparentemente)raggiunti dal processo di civilizzazione – cultura delle regole, rispetto della diversità, amore per il pluralismo, tolleranza per la diversità, rispetto dell’altro. Gli attuali assolutismi ideologici dei quali la presidenza Trump – non Trump personalmente – sono la più chiara delle espressioni, perché provenienti dal paese assertore della libertà per antonomasia, ci stanno conducendo ad una nuova stagione bellicistica, che pare presentarsi con forza ineluttabile. Il suo sigillo: l’incremento della spesa militare, un’indubbia necessità ma anche indubbio presagio per tempi assai bui.
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