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La riflessione

La fuga dall’orale è segno di resa, non d’intelligenza

È un segnale di quanto la nostra società sia malata

La fuga dall’orale è segno di resa, non d’intelligenza

Chi ha discreta memoria ricorderà che l’esame di maturità ed, ancor prima, quello che si chiamava di ‘licenza liceale’, costituiva un momento topico nella vita del giovane che s’attrezzava per la vita. Si trattava d’un rito di passaggio, d’una personale metamorfosi, insomma d’una trasformazione che faceva venir fuori dall’età pubere e apriva al momento delle scelte importanti e decisive per il proprio futuro, trasferendo dal mondo della scuola a quello dell’Università (o del lavoro), spesso slegando dall’ambiente familiare ed aprendo ad esperienze sempre più personali e responsabilizzanti. Naturale che ai nostri giorni molti di questi contenuti simbolici siano andati disperdendosi.

La vita attualmente porta ad incontri molteplici, da subito assai indipendenti dall’ambiente scolastico e spinge ad una relazionalità disordinata ed incontrollata, rispetto alla quale le tradizionali istituzioni hanno una presa sempre più debole, incapacid’orientare e di far da modello. È tempo che non sono più scuola, famiglia parrocchie o collegi a rappresentare i luoghi in cui si compiono gli svolgimenti fondanti della personalità. E questo è un dato inconfutabile. E però la notizia che in questi giorni sta circolando sui mezzi dell’informazione, nonostante tutto, a me sembra assumere un significato ancor più radicale. La notizia è questa: che va diffondendosi una pratica, sino allo scorso anno del tutto inedita. Vari giovani, chiamati a sostenere l’esame orale finale del loro ciclo scolastico, vi si sottraggono.

Il voto minimo da raggiungere per il superamento dell’esame di maturità è infatti 60 ed esso si compone di un mix costituito dai cosiddetti crediti maturati durante l’ultimo triennio di frequentazione dell’istituto superiore, fino ad un massimo di 40, e di 60 punti, 20 per ciascuna della due prove scritte e di quella orale. Sicché è ben possibile che in ragione dei punti sommati a titolo di crediti e nelle due prove scritte, il candidato all’esame finale raggiunga il minimo ed anche più di quanto richiesto per il conseguimento della maturità senza necessità d’incomodarsi ad aggiungervi i punti riservati alla valutazione della prova orale. Ora, a quel che si legge, vainvalendo l’uso di non sottoporsi alla prova orale da parte di coloro che abbiano ottenuto il punteggio minimino necessario a portare a casa l’esame di maturità.

Ed il fenomeno starebbe ampliandosi, al punto che il ministro dell’Istruzione Valditara ha avvertito la necessità d’annunciare che sarà a breve adottata una norma di legge per impedire che la pratica prenda ulteriormente piede nelle tornate a venire. A me sembra che il fenomeno così descritto abbia un significato che travalichi la dimensione della furbizia o se vogliamo dell’opportunismo scansafatiche del singolo o dei numerosi studenti che l’hanno ideato e praticato. La prova finale d’un ciclo di studi è anche un momento di personale realizzazione, di messa alla prova delle proprie capacità e di verifica dei risultati che si è in grado di raggiungere. A nessuno piace essere esaminati, benché com’è noto da tempo gli esami non mai abbiano termine nel corso dell’esistenza e se non si è in grado d’affrontarli, si è votati dal fallimento ed all’emarginazione sociale. E la scuola è per eccellenza un luogo in cui ci si misura e ci si mette alla prova.

Essa, nella sua pur protetta dimensione, riproduce in sedicesimo quella competizione per l’obiettivo prefisso – il profitto scolastico, appunto – che sarà poi l’impegno costante della vita: l’esistenza fatta appunto di motivazioni e fini, in assenza dei quali il quotidiano non può essere retto e la condizione umana non riesce a strutturarsi, riducendosi ad un balordo trascinarsi nell’inconsistenza e nella probabile disperazione. Ora, che l’ambiente scolastico, non dico non trasmetta una valida formazione culturale, ma nemmeno riesca a far avvertire l’importanza per l’uomo dell’impego per il raggiungimento della propria affermazione (le due cose, per vero, vanno insieme) è un dato storico che non va trascurato. Non che esso sfuggisse del tutto. Da docente universitario posso testimoniare che il livello culturale esibito dagli studenti iscritti ai corsi è spesse volte, troppo spesse volte, semplicemente inqualificabile. Molto di frequente le carenze nelle capacità cognitive sono disperanti. Posti dinanzi ad un testo scritto, due volte su tre gli studenti non sono in grado d’intenderne il significato, sì, non capiscono cosa quelle parole – non di rado lette con l’accompagnamento del dito indice che vien fatto scorrere sotto la riga da leggere perché non se ne perda la sequenza – cosa quelle parole vogliano significare. Dunque, i mezzi forniti dall’insegnamento scolastico sono non di rado d’imbarazzante insufficienza.

E questo è un dato, tanto che ormai è invalso l’uso di sottoporre gli iscritti all’università ad attività formative integrative, nell’illusione che ciò possa metterli in condizione d’affrontare gli studi che li attendono. Ma anche messo in conto tutto ciò, resta davvero allarmante il disinteresse dell’alunno liceale per il proprio risultato all’esame di maturità. Sottrarsi alla prova orale perché s’è raggiunto il minimo indispensabile a superare quella fase della propria formazione mostra un’assenza di ambizione, una mancanza di rispetto per il proprio sé davvero radicale, una concezione minimale della vita che promette troppo poco. Ma mostra anche che nella scuola e nel mondo che intorno ad essa circuita – a dispetto di tutto quel corredo di vuota proceduralità che ormai caratterizza l’insegnamento scolastico, ed anche universitario – non si crede più, la scuola non è più in grado di suscitare interesse, di formare coscienze, di sviluppare il senso della dignità umana. E questo è un segnale, uno tra gli altri, ma non certo il minore, di quanto la nostra società sia malata, e purtroppo non solo la nostra.

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