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l'intervento
14 Ottobre 2025 - 11:24
Prima di affrontare nel merito della soluzione parlamentare al salario minimo, in ragione della recente approvazione della delega al Governo in materia di retribuzione e contrattazione, che rischierebbe di offuscarne e comprometterne il fine nobile sotteso, ritengo sia più giusto e opportuno concentrarsi sulle reali e significative ragioni, sociali ed economiche, che hanno giustificato l’intervento normativo e rispetto alle quali, ritengo, ci sia piena convergenza politica.
Il riferimento è al contrasto alla preoccupante contrazione del potere di acquisto degli stipendi, che di fatto genera lavoro povero e rende difficile l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro, nonché al diffondersi di fenomeni deplorevoli come lo sfruttamento del lavoro, che si annida soprattutto nelle filiere degli appalti, il dumping contrattuale e il lavoro in nero o irregolare, che ledono inevitabilmente i lavoratori e la libera concorrenza.
Uno Stato liberale e riformista, in presenza di situazioni che compromettono e offendono le libertà individuali e conducono a disuguaglianze eccessive o a situazioni di insicurezza e povertà, è tenuto a intervenire, scalfendo due principi fondanti la nostra Costituzione, la dignità del lavoro e la certezza del diritto.
Tutelare la dignità del lavoro è indice di civiltà giuridica, perché solo attraverso di essa il cittadino realizza la sua libertà e la sua fisiologica crescita professionale, il posizionamento nella comunità più affine alle proprie capacità, favorendo così lo sviluppo sociale ed economico.
In questa direzione, la previsione di norme che consentono la determinazione del giusto salario, è fattore positivo di un paradigma ordinamentale orientato alla giustizia sociale, che mira ad affermare il rispetto della persona umana del lavoratore e della sua famiglia, la sua sicurezza e le sue prerogative.
Venendo, così, alla recente legge delega approvata dal Parlamento che ha stabilito i principi a cui il Governo dovrà attenersi nell’emanare i decreti attuativi, la norma ha di fattocassato l’idea del c.d. campo largo di fissare un minimale retributivo per legge, valorizzando invece la centralità della contrattazione collettiva nel considerare sufficiente il rinvio al trattamento economico complessivo minimo fissato dagli accordi collettivi di settore, di maggiore applicazione.
Tale impostazione, tenuto conto delle previsioni costituzionali in materia e sposando un approccio più liberalee riformista, è più condivisibile in quanto, limitandol’intervento dello Stato nelle dinamiche economiche e sindacali, valorizza e responsabilizza i sindacati, riaffermandone il ruolo di autorità salariale, quali migliori attori per individuare quella che deve essere la giusta retribuzione, calibrata per livelli retributivi e per ciascuna categoria economica.
Anche se, è opportuno evidenziarlo, per un’analisi più puntuale bisognerà comunque attendere l’approvazione dei decreti legislativi, possiamo certamente già sostenere che la tecnica normativa di rinvio in bianco alla contrattazione collettiva rischia di non risolvere le attuali criticità legate alla fissazione di un minimale certo, rimanendo di fatto il salario minimo contrattuale un parametro di riferimento.
Volendo interpretare, diversamente, il primo principio contenuto nella legge delega, così da considerare il salariocontrattuale un valore inderogabile, allora si aprirebbero plausibili scenari di incostituzionalità. Motivo per cui la magistratura potrà sempre intervenire e, laddove consideri non equa la retribuzione contrattuale, la rideterminerà in attuazione dei canoni costituzionali della proporzionalità e sufficienza, con ragionevoli conseguenze negative in termini di disparità di trattamento tra i lavoratori e le imprese e di certezza del diritto.
Quindi, unico percorso normativo che permetterebbe disuperare le anzidette criticità resta l’attuazione dell’art. 39 della Costituzione, ovvero una legge che regolamenti la rappresentanza sindacale, prevedendo l’acquisizione della personalità giuridica da parte dei sindacati.
Allora sì che si metterebbe fine pure alla proliferazione incontrollata delle sigle sindacali, alcune minoritarie e sovente prive di un significativo grado di rappresentatività, e alla convivenza di più contratti collettivi che, pur operando nel medesimo settore merceologico, di fatto non sempre riconoscono condizioni di lavoro omogenee, con effetti devastanti e compromettenti anche sul piano contributivo del lavoratore.
*Economista del Lavoro
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