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Apre nuovi scenari la missione di Trump

Si è aperta ieri in Arabia Saudita e nel Qatar la nuova stagione delle relazioni internazionali. La prima missione all’estero di Donald Trump nel suo secondo mandato presidenziale nella scia degli Accordi di Abramo, e non solo. Si è concretizzata con la ratifica degli importanti accordi commerciali, negoziati negli ultimi mesi e ampiamente pubblicizzati nei giorni scorsi, e con la svolta nei rapporti con il nuovo regime siriano. Svolta segnata dai 33 minuti dell’incontro a Riyadh tra il capo della Casa Bianca e l’uomo forte di Damasco, Ahmed al Sharaa – noto anche come Al Jolani sulla cui testa fino a pochi mesi fa pesava una taglia perché alla guida di un’organizzazione terroristica islamista.

Ora è a capo di un regime dittatoriale e di uno Stato in assestamento, fino a qualche mese addietro governato da uno degli ultimi regimi socialnazionalisti e panarabi -quello degli Assad tirannico come l’attuale ma laico per il metro mediorientale, sacrificato agli interessi strategici sia della Turchia versione neo-ottomana, sia di Israele di cui era una spina nel fianco, dati i rapporti tra la minoranza alawita al potere ed il regime iraniano, la cui lunga mano era in loco Hezbollah. Significativo che a sollecitare l’incontro, di cui è stato testimone da remoto, sia stato il presidente turco Recep Tayyp Erdogan, ‘padrino’ politico e militare di Ahmed alShaara. E altrettanto significativo che all’incontro il primo dopo un quarto di secolo tra i leader di Stati Uniti e Siria – abbia partecipato il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, rivelatosi finora molto capace, lungimirante ed abile, persino nei rapporti con il regime fondamentalista sciita iraniano. Era stato definito da JoeBiden “un bandito”. Per Trump è invece “uno statista che stimo molto”: all’aeroporto – diretto a Doha in Qatar lo ha salutato portandosi una mano sul cuore. Apertamente contraccambiato.

L’America invita la Siria ad aderire agli accordi di Abramo, disarmare i “terroristi palestinesi” e “assumersi la responsabilità dei centri di detenzione dell’Isis nel nord-est” siriano, prospetta di dismettere le sanzioni ma raccomanda una democratizzazione del Paese e, soprattutto, chiede la normalizzazione delle relazioni con Israele: questo il banco di prova. Dovrà convincere Benjamin Netanyahu, molto diffidente, tanto da ordinare in coincidenza con la missione di Trump l’eliminazione di Muhammed Sinwar, fratello e successore di Yahya, dirigente di Hamas. Con lui, altre vittime civili.

Certo, il conto lo porta sempre Hamas, inverificabile. Ma sono tanti, troppi. Trump insiste sulla tregua ma sa pure che, dopo il massacro di circa 1300 civili ebrei, era forse impossibile agire a Gaza con una tattica militare diversa contro chi avrebbe potuto subito evitare i bombardamenti rilasciando gli ostaggi e invece si nasconde dietro i civili, al ‘riparo’ di scuole, ospedali, palazzi condominiali. Il premier israeliano è colpevole di aver ignorato che Hamas – dopo aver preso il potere spargendo il sangue dei “fratelli palestinesi” post-baathisti di Al Fatah – aveva costruito una città sotterranea. Anche con i soldi destinati alla popolazione palestinese, ipermoltiplicatasi e in massima parte dipendente dalla carità internazionale. Donald Trump suggella in terra araba le intese nate e sviluppatesi con gli Accordi di Abramo e apre orizzonti su futuri possibili accordi strategici. Solleva il sipario su nuovi scenari segnatamente nel Medio Oriente e nell’immensa area euroasiatica.

La odierna tappa di Istanbul ufficialmente tramontata, appesa all’interrogativo di un vertice a due – Trump e Vladimir Putin – che sottragga l’ennesimo palcoscenico a un Volodymyr Zelensky cui mancano statura e credito per invocarlo. Nell’ex Costantinopoli, a rappresentare la Terza Roma è indicato il ministro degli Esteri, SergheiLavrov, tra i migliori interpreti – per cultura e coerenza della ‘scuola’ di Andrei Gromyko. A meno di sorprese, resterà ancora nella cronaca il solo faccia a faccia Putin-Zelensky di cinque anni fa. Fu a Istanbul che Zelensky strappò, a marzo di tre anni fa, la bozza del compromesso raggiunto tra le delegazioni russa ed ucraina: a sbarazzarsi dei residui dubbi furono le promesse e le rassicurazioni degli Usa di Joe Biden e della Gran Bretagna di un Boris Johnson oggi miserabilmente pentito. Marzo 2022, quando si poteva ancora evitare che alla falce per il grano, ricchezza ucraina, si sostituisse quella della Morte a mietere centinaia e centinaia di migliaia di vite, forse un milione, e che al sistema democratico subentrasse una bieca dittatura che solo l’ipocrisia dei dirigenti europei tenta di nascondere, a volte sottovoce a giustificare.

Un compromesso calpestato come lo erano e lo sarebbero stati gli sforzi e i progetti di pacificazione inutilmente accumulatisi. Tanto per ricordarne un paio,quelli del leader cinese Xi Jinping e del premier israeliano Naftali Bennet. Quasi un’abitudine quella di gettare nei cestini assicurazioni, promesse e impegni:della Nato, che non avrebbe dovuto superare i confini tedeschi; di Washington, che non avrebbe dovuto interferire negli affari interni dell’Ucraina e che invece, grazie all’impegno di Victoria Nuland, contribuì alla defenestrazione del presidente democraticamente eletto Viktor Janukovich a cavallo del 2014; dei leader occidentali e di Kiev con il “tradimento” degli Accordi di Minsk…. Storie vecchie, certo, ma che vale tener a mente nel decifrare il presente e, per quanto possibile, il futuro. Vedremo anche come evolverà il confronto con Teheran e il rischio Bomba che rappresenta. La posizione di Trump si è capovolta, ma finora in apparenza: è l’ormai comprovato modo di trattare dell’imprenditore giunto alla Casa Bianca e, dopo una pausa, ritornatovi. Mai avventurarsi, quindi, in facili previsioni.

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