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Sul negoziato di Trump l’ombra di alleati e di Xi

Finché Washington e Pechino non troveranno un’intesa sul commercio la Cina influirà negativamente sul Cremlino nelle trattative tra America e Russia

Sul negoziato di Trump l’ombra di alleati e di Xi

Il negoziato fra Donald Trump e Vladimir Putin sull’Ucraina – ma strategicamente puntato a riconciliare l’Occidente euroatlantico con l’Occidente euroasiatico, la Federazione russa – ha un terzo attore, defilato com’è sua abitudine ma pronto a riaffermare il proprio ruolo nell’evoluzione degli equilibri internazionali: Xi Jinping. Finché Washington e Pechino non troveranno un’intesa sul commercio e sulle sfere d’influenza, la Cina influirà negativamente sul Cremlino nelle trattative tra America e Russia. Indispensabile per Putin l’alleanza con la seconda potenza economica planetaria in tempi di sanzioni occidentali. Dinanzi a Mosca si sono dischiusi nuovi mercati, prospettate potenziali alleanze, rinsaldate per necessità vecchie amicizie. Irrinunciabile per Trump il freno all’espansionismo commerciale cinese, che s’accompagna ormai a quello strategico.

Ma queste necessità possono rivelarsi positive, con l’interesse di Mosca a favorire il disgelo tra Cina e Stati Uniti, e di Pechino il dialogo tra Usa e Russia. L’impegno di Bruxelles e dei governi dei maggiori Paesi europei nell’approvare sempre nuovi pacchetti di sanzioni contro Mosca, appare non una spinta quanto piuttosto uno studiato boicottaggio degli sforzi della Casa Bianca verso un dialogo che porti, in Ucraina, a una “tregua coreana” (l’ultimo lascito kissingeriano) con la prospettiva di un trattato di pace. Così come Putin può considerare sospetta l’iniziativa europea di sfilare Istanbul, sede delle trattative, dalle mani di Recep Tayyip Erdogan, presidente di un Paese Nato ma in buoni rapporti con il Cremlino e mediatore degli accordi sul grano. Il plauso del capo della Casa Bianca e della sua amministrazione per un trasferimento a Roma è sincero, ma chi escluderebbe che sia da associare al manifesto fastidio verso le iniziative “controproducenti” degli alleati e non preluda a un eventuale: “Vedetevela tra voi europei, siamo stanchi di questa guerra che non ci appartiene”?

Ipotesi anticipata e ribadita. Insomma, dalle mani del presidente americano a quelle, giunte, del Papa americano… Trump alterna ottimismo e pessimismo. Fa parte del suo modo pubblico e scenografico di fare. In realtà, la novità consiste nell’utilizzo di inviati speciali, quasi ‘personali’(Steve Witkoff una vera sorpresa della diplomazia della concretezza e dell’ostinazione gentile); di un vicepresidente mai come prima presente controfigura sulla scena internazionale; di un ministro degli Esteri con un sorriso che ne accompagna la determinazione e la flessibilità a contemperare la calcolata, rude schiettezza del “comandante in capo” e del suo vice. Niente più dinastie e ‘famiglie’ politiche. Delle umili origini di Vance si sa. Qualche parola in più da spendere per il segretario di Stato: figlio di immigrati cubani, barista il padre, cameriera la madre, lui avvocato, poi senatore, infine a 53 anni il primo ministro degli Esteri latinoamericano.

Meno passi felpati e consuetudini dismesse. Dovremo farci l’occhio e le orecchie. Dazi, moniti e minacce – da sanzioni straordinarie per tutti all’occupazione della Groenlandia, dai bombardamenti a tappeto dell’Iran e dello Yemen all’emigrazione forzata di Gaza e via elencando -sono stati la premessa di trattative. Con la Russia, con la Cina, con gli arabi degli Accordi di Abramo e per coinvolgere anche Teheran. Lo si riconosca: lo scopo è sempre il compromesso. Fruttuosi i primi passi: dal confronto all’apertura del dialogo. Resta, tuttavia, il contributo degli stessi alleati a complicare il puzzle. Nel Vecchio Continente l’anti-putinismo di Bruxelles appiattita sul regime di Kiev. In Medio Oriente l’intransigenza di Benjamin Netanyahu che si contrappone a quella di Hamas, che non è uno Stato di diritto quale Israele ma una perfida e sanguinaria organizzazione terroristica, da schiacciare ma risparmiando i palestinesi che ne sono anch’essi in buona parte vittime. Certo, un distinguo non facile su un teatro di guerra come Gaza.

E ancora, l’intransigenza del premier israeliano che si contrappone a quella di Alì Khamenei, guida suprema di un regime religioso e fanatico ma pure a capo di un antico impero indoeuropeo da recuperare al Medio Oriente moderato. Putin se lo è ritrovato tra gli amici, indesiderati forse ma necessari fornitori d’armi (droni) e assistenza. Comprensibile la diffidenza del premier israeliano verso i ponti negoziali di Trump. Controproducente la minaccia di bombardare i siti nucleari iraniani mentre il disgelo è appena iniziato. E solo un cenno ai disegni neo-ottomani dell’alleata Turchia che contemplano non solo autoritarismo per i sudditi ma ancora una volta sacrifici per i curdi, ultima trincea laica. Laicismo di matrice sovietica, tra le eredità migliori e in declino del comunismo in Centrasia e in Medio Oriente.

Aspetto finora sottovalutato, la strategia del dialogo che Trump persegue – in apparenza confusa sotto alcuni aspetti, perché si sviluppa su teatri e piani diversi ma tra loro collegati – non tralascia la difesa. La Russia affida al primato nucleare il proprio status di superpotenza (considerata la debolezza delle forze convenzionali che il conflitto in Ucraina testimonia) e pochi giorni fa ha testato l’ultima generazione di supermissili. Si riarma a tappe forzate la Cina, tesa ad equiparare tutte le sue forze militari a quelle russe e americane. Altre potenze regionali atomiche appaiono in crescenza o emergenti. Ecco perché Trump, affiancato dal segretario alla Difesa Pete Hegseth, ha rilanciato l’altro ieri il progetto dello ‘Scudo spaziale’ col quale Ronald Reagan – come poi riconobbe l’allora ministro degli Esteri sovietico, poi presidente della Georgia, Eduard Shevardnaze – accelerò il negoziato tra Usa e Urss che portò al crollo prima del Muro di Berlino, poi della stessa Unione Sovietica. Il presidente Usa assicura che i fondi che mancarono a Reagan ci sarebbero. Pronti 25 miliardi di dollari dei 175 complessivi per realizzare il Golden Dome, la Cupola Dorata. Tre anni per dispiegarlo.

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