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Una lezione al Medio Oriente e un avvertimento agli altri

La pace raramente è conseguenza di trattative

Una lezione al Medio Oriente e un avvertimento agli altri

Donald Trump e Benjamin Netanyahu

Ed ora è il tempo delle lagne, delle profezie, degli appelli alla pace e del tutti a dire qualcosa possibilmente di apparentemente saggio, di ciò che si vorrebbe ascoltare per placare l’opinione pubblica più inavvertita. Il tempo delle previsioni, solo timide previsioni e sui tempi brevi. Di concreto per ora può dirsi solamente che Donald Trump con il bombardamento dei siti nucleari iraniani ha voluto dare una lezione all’Iran perché la smetta di fare il doppio gioco. E lanciare un avvertimento ad avversari ma pure ad amici incerti, segnatamente quelli che riteneva – e forse presume ancora – possano rivelarsi amici veri e non potenziali, tantomeno immaginari.

E anche dimostrare alla sua gente gli elettori che l’hanno votato in massa, operai e Maga e moderati delusi dei neocon -che lui è e vuol fare il presidente. Il “comandante in capo” prende decisioni che possono anche essere amare per una parte di loro, perché l’obiettivo di “fare l’America di nuovo grande” passa anche dall’evidenza che sfidarla comporta un prezzo salato, sfidarla un costo altissimo. Soprattutto, pare voglia chiudere una lunga fase della storia nella quale gli Stati Uniti abbiano offerto una diplopia, una visione doppia di se stessi: 1) La superpotenza che vince a metà (dall’Europa -alla fine della prima guerra mondiale lasciata a programmarsi la seconda e, alla fine della seconda, abbandonata per metà a Stalin -alla Corea…). 2) La superpotenza che perde o si ritira lasciando nei guai popolazioni illuse: dal Vietnam all’Iran, dalla Somalia al Libano, dai Balcani all’Iraq, dalla Libia all’Afghanistan e all’Ucraina sacrificata dalle amministrazioni influenzate dai ‘neocon’ all’obiettivoillusorio di smembrare l’impero russo….

Non solo. Con l’Iran di Ruhollah Khomeini e di Alì Khamenei gli Stati Uniti avevano, ed ancora hanno, un vecchio conto da regolare. La “crisi degli ostaggi” che seguì al golpe di Khomeini, che il governo di Parigi sollevò dall’esilio dorato in Francia per affidargli il popolo persiano stanco dello scià Reza Pahalavi e della sua corte. Minato dal cancro fu costretto, nel febbraio 1979, a fare i bagagli per non finire impiccato come gran parte dell’aristocrazia e dell’oligarchia militare ed economica. La sinistra occidentale inneggiò, salvo poi assistere all’eliminazione sistematica dei rivoluzionari mujaheddin del Mek, i quali avevano collaborato sia alla cacciata dello scià, sia all’occupazione dell’ambasciata americana. Oltre cinquanta diplomatici vennero fino al 1981 tenuti prigionieri. Il tentativo di liberarli del presidente Jimmy Carter con l’operazione “Eagle Claw” fallì grottescamente. L’America – allora, e da allora --umiliata in Medio Oriente dalle brigate del regime fondamentalista sciita e dalle milizie sue alleate in Yemen, in Iraq, in Siria, in Libano).

Trump si presenta come il presidente che ne ha compiuto la vendetta ed inaugura una nuova pagina di storia. Il futuro ci dirà semigliore, se di guerra, se di pace. Il disegno di Israele, del suo governo guidato da Benjamin Netanyahu (mai come ora in vetta ai sondaggiin patria, dettaglio di cui troppi media si scordano) è rendere inoffensivo militarmente l’Iran. Meglio ancora se con un cambio di regime. E se non veloce almeno lento, graduale, attraverso una successione moderata, una ‘versione’ del potere meno religiosa, fondamentalista, bensì più occidentalizzante come la gran maggioranza dei cento milioni dei suoi cittadini indo-europei.

Lo consigliano, anzi lo esigono le esperienze segnatamente irachena e libica. Lo scopo è di evitare, se possibile, un salto nel buio. Indicammo l’ipotesi che il secondo fronte, dopo Gaza, sarebbe divenuto l’Iran – chissà, qualche lettore lo ricorderà – dopo la strage del 7 ottobre dei circa 1300 ragazzi ebrei e le operazioni militari contro Hamas, accompagnatesi o seguite alle altre nei Paesi della “mazzaluna sciita (Yemen, Iraq, Siria, Libano). La distruzione di Hamasfilo-iraniana a Gaza e delle milizie alleate in quei Paesi poteva avere, infatti, un solo eventuale seguito: l’attacco all’Iran dei fanatici religiosi sciiti. La lezione Donald Trump è arrivata dopo le inconcludenti trattative di metà aprile in Oman e i contatti che ne sono seguiti, nei quali Teheran è parsa convincersi che il capo della Casa Bianca fosse votato alla prudenza se non all’indecisione, considerate le tendenze divergenti sul futuro mediorientale nel suo entourage come nell’elettorato.

A rafforzare il convincimento, la condotta apparentemente ‘debole’della Casa Bianca nei confronti di Vladimir Putin che rifiutava un’intesa sull’Ucraina rapida come promesso. Un capo del Cremlino “amico dell’Iran”, a testimoniarlole forniture massicce di droni. E ancora: l’incertezza che Trump rivelava con le motiplicazioni e le successive sottrazioni di dazi nei confronti della Cina. E in primo luogo, l’insofferenza negli ultimi giorni verso Netanyahu, che bombardava l’Iran quasi a sabotarne i negoziati… Insomma, a Teheran un esame della situazione che sottovalutava altri aspetti. Ad esempio, i mòniti ripetuti quotidianamente nell’ultima settimana ai ‘sacerdoti’ sciiti perché scegliessero la pace. E che avrebbero dovuto far temere che la pazienza di Washington era finita e che una lezione severissima al governo iraniano sarebbe stata utile pure al tavolo degli altri negoziati. Stava per scoccare la fine dei tempi supplementari affidati alla diplomazia.

Con Teheran ma non solo. La lezione, la prima cui potranno aggiungersene altre, valga come avvertimento alle altre capitali mediorientali. La pace raramente è conseguenza di trattative -ché tregue e intese spesso rinviano i conflitti – mentre le vittorie e le sconfitte le assegnano più sovente e a lungo. Ma un avvertimento pure al Cremlino e alla Città Proibita, anzi un sollecito a raggiungere un equilibrio tripolare per la prossima fase della storia. Questi gli ambiziosi traguardi. Vedremo se Trump riuscirà a raggiungerli e a sfuggire all’abbraccio troppo stretto di Netanyahu. E ad invertire la rotta seguita dai suoi predecessori, a cominciare proprio da Teheran, con il golpe di Washington e Londra contro Mohammad Mossadeq nel 1953. “Non presenterò alcun appello contro una condanna a morte e non accetterò alcun perdono se lo scià decidesse di accordarmelo. Il perdono è per i traditori ed io sono invece la vittima di un intervento straniero”.

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